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Quella doppia trilogia della città di K.

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"Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche. Camminiamo a lungo. La casa di Nonna è lontana dalla stazione, all'altro capo della Piccola Città. Qui non ci sono tram, né autobus, né macchine. Circolano solo alcuni camion militari" [tratto da Agota Kristof, Trilogia della città di K., Einaudi 2005].

Rimane indistinta sullo sfondo chiazzato dal grigio della neve calpestata, la città di Agota Kristof. Perse in un imprecisato paese dell'Est, sulla neve di quelle strade travolte dall'ultima guerra, graffiate in modo nitido le impronte di Klaus e Lucas, due gemelli dall'intelligenza cruda e atroce. Figure nette benché intercambiabili, le loro, in un gioco a tratti perverso di identità che si sfiorano e poi si confondono [come quelle che popolano le nostre metropoli, ma qui i protagonisti sono due - o uno? o noi tutti?] e poi si sovrappongono amplificandosi, fino ad arrivare a specchiarsi, sancendo un'inesorabile frattura.

Una città abitata da pochi altri – e scarni – personaggi, raccontati con una scrittura dura, che guarda in faccia le tragedie e sa descriverle in modo asciutto e lucido, avvinghiandoci a una prosa suadente. Una scrittura serrata che incide dentro come una ferita profonda, la cui cicatrice rossa ci verrà voglia di continuare a carezzare nel tempo.

L'autrice, ungherese di nascita, ha lasciato il suo paese nel 1956 e vive in Svizzera.

S.S.

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