Quella sua bottiglietta d’acqua blu (di Silvia Nicolini)
Ho sposato mia moglie perché era oca abbastanza.
Per quieto vivere.
Per cavarmela facilmente annuendo ad ogni suo discorso, senza starla davvero a sentire.
Soltanto una volta ho acconsentito ad accompagnarla a fare shopping proprio nello stesso giorno in cui lei mi aveva già detto che sarebbe stata fuori città con sua madre.
Si è arrabbiata tantissimo, ma è bastato dirle che ero soprapensiero (che poi non è una vera e propria bugia, perché i miei pensieri sono sempre ad un livello più alto dei suoi) per farla tornare tranquilla come sempre.
Ieri abbiamo festeggiato il nostro terzo anniversario e lei continua a dire a tutti che probabilmente non arriveremo al settimo. Non credo abbia tutti i torti. Ci siamo sopportati, neanche tanto cordialmente, per il piccolo Luca.
Il piccolo Luca è nostro figlio. Ha giustappunto tre anni e lei continua a dire a tutti che ancora non si è ripresa dal parto; che, se potesse, a tornare indietro non lo rifarebbe. Sarà per questo che lei nostro figlio non lo considera mai. Mi auguro sempre che lui non senta o non capisca, perché è grazie a lui che reggo ancora la convivenza con lei.
Abitiamo nel mio vecchio appartamento da single, una specie di loft per artisti in Via Matas. In tre si sta stretti, ma mia moglie non vuole andare via. Tanto non ci sta mai perché passa la maggior parte del suo tempo in ufficio. È arredatrice d’interni: di arredamento sa tutto, il resto semplicemente lo ignora. Come ignora che si debbano pagare le bollette, la retta dell’asilo, l’assicurazione. Come ignora che si debba cucinare per mangiare o pulire per avere una casa decente in cui invitare le sue amiche fichissime. Viviamo praticamente con il mio stipendio, benché le sue entrate finanziarie siano di molto superiori alle mie, perché io sono solo un banale consulente informatico.
Non viaggiamo mai insieme io e mia moglie, perché a lei non piace viaggiare.
Parto da solo per un paio di giorni, magari per lavoro, e quando torno la trovo che sottopone nostro figlio a diete biologiche e cure omeopatiche pescate da chissà quali riviste o su suggerimento di una delle sue amiche fichissime.
Le sue amiche sono sempre fichissime: abbigliamento composto esclusivamente da capi firmati, capelli freschi di parrucchiere ogni due giorni, trucco rigorosamente opera di un qualche esperto di make-up.
Le mie amiche, anche quelle che reggerebbero la concorrenza con le suddette, sono sempre sfigate. Almeno a sentire quello che dice lei. Ordinarie, spesso preda di look underground “comodo da tutti i giorni” o “a strati perché sento tanto freddo”.
Quando vengono a casa mia insieme a qualche amico (lo ammetto, di amici uomini ne conosco pochini), mia moglie le lascia cucinare, cena una mezz’oretta insieme a noi e poi cade in coma sul letto dimenticandosi marito, figli e ospiti.
Stamattina ha chiamato una delle amiche fichissime. Sono state al telefono per un po’; mia moglie annuiva con interesse e preoccupazione, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata furtiva a me e a Luca che giocava con le costruzioni in un angolo del salotto. Quando finalmente si è decisa a lasciar cadere la cornetta, si è sollevata dalla poltrona con la velocit� di un fulmine e ha ruggito contro di me: – Tu e la tua stupidissima mania di non guardare mai i telegiornali!
Era talmente furiosa che per un attimo ho pensato che il vero motivo per cui avesse deciso di rovinarmi la vita ogni santo giorno fosse collegato alla mia ignoranza in materia di notiziari televisivi. Ho fatto ciondolare il capo svogliatamente, come se volessi silenziosamente darle ragione del rimprovero, e lei ha abbozzato un sorriso di vittoria.
- Sai che cosa mi ha detto?! – ha chiesto inquisitoria, ributtandosi a peso morto sulla poltrona, come se avesse terminato tutto il budget energetico della giornata – Era una città così tranquilla!.
- Chiaro che non lo so, ci hai parlato tu! Che cosa ti ha detto? – ho insistito io per non perdere altro tempo.
- Ma lo capisci, amore? È tremendo. Non si può più vivere tranquilli nemmeno qui. Amore, questo comporterà delle misure di sicurezza. Capito amore? Delle misure di sicurezza… – ha ripetuto scandendo bene ogni sillaba come se stesse parlando con un bimbo dell’asilo, come se stesse spiegando al piccolo Luca que-sto-non-si-fa-hai-ca-pi-to.
- Che cosa ti ha detto? – e due. Chissà che tra l’intercalare “amore”, che a mia moglie piace tanto, anche se sinceramente dubito che ne conosca esattamente il significato, non si fosse dimenticata di rendermi partecipe delle rivelazioni della sua amica fichissima.
- Ha visto una giù a piazza Roma. Stava facendo una passeggiata con Nora, Giusy e Debby… – le amiche fichissime di mia moglie hanno nomi da Barbie – … c’erano anche le altre con i bimbi. Hanno visto questa che buttava qualcosa nella fontana. Poi, tornate a casa, al regionale hanno dato un annuncio da far paura. C’è un fattore sconosciuto nell’acqua che può essere pericoloso. Le autorità hanno chiamato un cinese, o un giapponese non mi ricordo, per controllare. Capisci, amore? L’acqua è inquinata!
- Sei sicura di aver capito bene? – non mi sono preoccupato più di tanto: l’amica in questione aveva da sempre la propensione a mettere ricamini allarmanti su qualsiasi cosa raccontasse.
- Non sono mica stupida! – se l’era presa mia moglie e io ho annuito.
- Dobbiamo fare qualcosa. Le ragazze hanno deciso di chiudersi in casa, una quarantena m’hanno detto. Niente acqua se non dalle bottiglie, niente contatti con soggetti che possono essere infetti. Amore, credo che anche noi dovremmo farlo. Togli subito la pistola ad acqua a Luca e chiudi la porta a chiave.
Luca aveva capito subito perché era corso sgambettando a prendere il suo giocattolo preferito e a nasconderlo sotto il cuscino del divano.
Io, dal canto mio, stavo cominciando a capire che cosa ci aspettava. Non so se perché capisse esattamente le potenzialità catastrofiche della situazione o se lo facesse per spirito di emulazione, ma mia moglie stava per segregarci in casa a tempo indeterminato. Luca si sarebbe divertito un mondo, senza asilo e senza bagnetto, ma io? Pensavo a cosa avrei fatto io dentro quelle quattro mura, ventiquattrore su ventiquattro a contatto con mia moglie.
- Anzi no! – ha aggiunto in fretta ed io ho sinceramente sperato che avesse cambiato idea – Tu stamattina hai già fatto la doccia. Potresti essere infetto, amore. Capisci? Non posso rischiare. Puoi prendere qualche vestito e andare dai tuoi, amore, almeno fino a che questa situazione non si sarà risolta?
Improvvisamente si stava avverando qualcosa di peggio della convivenza forzata a tempo pieno: mia moglie mi stava sbattendo fuori di casa.
Ero un potenziale fattore di contaminazione, almeno nella sua testa, per quella mia deplorevole mania di alzarmi presto la mattina e di lavarmi da capo a piedi, mentre lei si aggirava per casa in pigiama fino ad ora di pranzo. Mia moglie aveva appena decretato la sua condanna su semplici supposizioni, su addizioni di frammentarie informazioni: dovevo andarmene di casa per preservare la sua incolumità. Lo scenario si stava delineando chiaro e ineluttabile, ma a me era venuta solo una domanda in mente: – Luca viene con me?
- Amore, certo che no. È piccolo e poi ancora non ha fatto il bagnetto, non può essere stato infettato. Luca rimane con la mamma, vero piccolino?
Era la prima domanda che le avessi mai sentito rivolgere a quell’esserino che aveva sempre considerato una scomoda appendice. Luca continuava a nascondere i suoi giocattoli.
Nell’arco dei successivi quindici minuti ero già fuori dalla porta con la valigia in mano, ed ora sono qui che cammino verso non so bene dove.
Risalgo Corso Mazzini, meditando sul da farsi.
Potrei tornare dai miei, ma quasi sicuramente penserebbero che io e mia moglie siamo sull’orlo del divorzio e non mi pare il caso di preoccuparli più di tanto (ma sarebbero davvero preoccupati?). Potrei anche prendere una stanza in qualche albergo, se non fosse che nell’uscire di casa ho dimenticato il portafoglio sul comò e ora mi aggiro senza uno straccio di euro né di documenti. Questa giornata fa schifo.
Accantonate con somma fatica le preoccupazioni per aver lasciato Luca in balia di mia moglie (in fondo era pur sempre al sicuro più che con me in giro senza soldi e documenti), mi decido a passeggiare ancora un po’ nella speranza di farmi balenare un’idea grandiosa su dove piazzarmi fino alla fine di questa emergenza.
Questa emergenza. Ma qual è esattamente questa emergenza? A parte le informazioni frammentarie che altro ne so? Nulla.
Potrebbe essere davvero una catastrofe oppure, come spesso accade, del puro allarmismo.
Scruto i volti della gente alla ricerca di qualche indizio, eppure mi pare tutto uguale a ieri e all’altro ieri. La bambina capricciosa trascinata dalla madre fuori da un negozio, l’odore della pizza calda, l’edicolante che si affaccia a fumare una sigaretta, la vecchietta con il carrello della spesa che torna dal mercato delle erbe. La solita Ancona, insomma. Giusto una decina di operai che fanno correre del nastro fosforescente dalle Tredici Cannelle all’angolo del negozio Champion: un anonimo diversivo alla quotidianità scarsa di eventi memorabili di questa città.
A mia modesta opinione, l’amica fichissima di mia moglie si era fumata qualcosa di forte.
Proseguo quasi in trance sino a Piazza Cavour, tanto oggi c’è anche un briciolo di sole, languido, pallido, però è pur sempre un po’ di sole in una lunga serie di giornate tutte grigie e tutte uguali che si susseguono da Novembre.
Ho tempo di pensare.
A volte mi chiedo perché non mi decida una volta per tutte a mandare a quel paese mia moglie. Litighiamo sempre: di persona, al telefono, persino via email. Litighiamo per cose assurde, per cose stupide e per cose enormi. Poi capisco che non la mando a quel paese per Luca. Probabilmente la sopporterò finché mio figlio non avrà compiuto quindici anni, che ritengo siano un’età giusta per cominciare a cavarsela anche con dei genitori separati.
Magari nel frattempo mia moglie si farà un’amante. È un’idea che mi prosciuga la gola, perché vorrebbe dire che qualcuno la trova piacevole, mentre nessuno ha ancora trovato piacevole me. Non può accadere, soffro tremendamente all’idea di perdere una competizione di piacevolezza contro mia moglie. La gola è davvero secca ora. Ho bisogno di bere.
Per puro scrupolo evito la fontanella nell’angolo. Emergenza acqua a parte, supposta o vera che sia, ho sempre creduto che bere dalla stessa fontanella in cui si ristorano piccioni e amici a quattro zampe non sia cosa per me. Mi compro una bottiglietta al chiosco, la scolo tutta e mi siedo sulla vecchia panchina arrugginita che dà le spalle alla stazione dei bus.
Credo di essermi assopito per qualche minuto, perché sono saltato su di botto, mezzo spaventato, quando ho sentito qualcuno domandarmi: – Giornataccia?
Che diavolo ci fa questa qui appollaiata sulla mia panchina?
È una figura minuta, raggomitolata con le braccia attorno alle ginocchia e la testa appoggiata sulle braccia.
- Scusi?
- Dico, giornataccia?
- Ha ragione signorina, è proprio una giornataccia. – Chissà perché le sto dando spago, forse perché mi sono reso conto che è una ragazza e non è carino essere scortese con le ragazze.
- Ne vuole parlare?
Ma sei fuori? Ma chi sei? – No, non ne voglio parlare – dico scocciato, facendo per alzarmi dalla posizione distesa che avevo assunto durante il sonno – Sono abituato alle giornatacce. Questa è una delle tante.
Non riesco a liberarmi. La tizia si è posizionata in modo così strategico che per scendere dalla panchina dovrei passarle una scarpa in faccia. Cerco di mettermi per lo meno seduto. Nel frattempo la guardo meglio.
Ha dei buffissimi capelli corti, arruffati, un viso lungo e scarno come quello di un elfo visto al cinema in qualche film. Il look è piuttosto anni ’80, un po’ demodè, ma le calza a pennello. Ombretto celeste su occhi enormi che mi osservano inquisitori.
- Ha litigato con la sua fidanzata? – chiede a bruciapelo.
- No!
- Con sua moglie? – non demorde.
- Sì! – forse mi lascerà in pace.
- Siete sposati da molto?
Silenzio.
- Venti anni?
- Non sono così vecchio!
- Dieci?
- No!
- Sette? La crisi del settimo anno?
- Macchè. A quella neanche ci arriviamo – eccomi a confidare ad una perfetta sconosciuta che io e mia moglie non arriveremo alla crisi del settimo anno. Perfetto, probabilmente questa qui era l’unica che non era stata ancora informata ed ho appena provveduto a farlo io.
- Piacere, mi chiamo Marilena.
Che cosa c’entra con la crisi del settimo anno non lo so, ma mi porge la mano magra e affusolata e proprio non ce la faccio a non chiuderla nella mia per sentire che effetto fa.
La sua stretta è calda, energica e dolce allo stesso tempo. La guardo di nuovo come se la vedessi per la prima volta.
- Non sono pazza, la prego di credermi. Soltanto che passavo da Via Matas e l’ho vista uscire con il borsone in spalla. Aveva un’aria così afflitta. L’ho seguita fino a qua perché pensavo che forse potevo darle una mano. Sono brava ad aiutare la gente.
La conversazione si fa sempre più surreale. Mi ha seguito. Sarà pericolosa? Sono interdetto, ma sento di dover dire comunque qualcosa prima che lei riprenda le redini del gioco
- Segui sempre tutti quelli che hanno un’aria afflitta?
Ci pensa un attimo e poi con candore mi risponde di no.
- No, non è nel mio stile. Fa così psicopatico. Ho fatto un’eccezione per lei. Sa, in fondo, è un po’ come se ci conoscessimo da tanto tempo.
- Ah sì? Ma pensa.
- Faccio la giornalista. Vivo in affitto in un appartamento lungo il Viale. Quando mi sveglio, mi affaccio alla finestra per vedere come comincia la giornata tutta l’altra gente. Mi fa sentire parte di questa città. È come se fossero tutti un po’ la mia famiglia perché, sa, la mia famiglia è lontana. Così ogni martedì mattina io la vedo: si ferma al distributore sotto casa mia, con la sua macchina color argento. Fa il suo solito pieno di carburante e, mentre il benzinaio le riempie il serbatoio, lei si allontana di qualche passo dalle pompe e si accende una sigaretta. Piuttosto, lo sa che potrebbe farmi saltare per aria? Poi paga, sale in macchina senza cintura, perché quella se la allaccia in corsa, e riparte. Alle otto e un quarto di ogni martedì mattina. Sa, mi piace chiedermi che vita hanno le persone che vedo dalla mia finestra: se spremono il tubetto del dentifricio dal basso o dall’alto, se mangiano le rotelle di liquirizia a morsi o srotolandole o forse non le mangiano affatto. Cose così, insomma. Me le sono chieste anche su di lei. Poi oggi mi sono presa la mattinata libera per farmi un giro in centro e, quando l’ho vista, l’ho subito riconosciuta.
- Per favore, smettila con questa terza persona in stile elisabettiano!
- Scusi. Scusa. Quando ti ho visto, ti ho subito riconosciuto. Non è buffo che nel mio giorno di ferie incontro proprio il tizio che minaccia di farmi saltare in aria ogni martedì mattina?!
- Già… davvero un colpo di fortuna! Soprattutto per me, direi. E adesso che mi hai seguito, bloccato e colpevolizzato, che cosa pensi di fare? Vuoi eliminarmi prima che ti faccia saltare in aria martedì prossimo?
- Effettivamente ci avevo pensato, però occultare il cadavere nel bel mezzo di Piazza Cavour è un progetto abbastanza ardito e per oggi ho programmi diversi dall’essere braccata dalle forze dell’ordine.
- Bene, mi fa piacere sapere che potrò vivere un giorno in più per litigare con mia moglie. È rincuorante avere dei punti fermi nella vita. Peccato soltanto che questo giorno in più di vita non so proprio dove passarlo, visto che mi hanno appena sbattuto fuori da casa mia.
- È per via dell’acqua vero?
- Che cosa ne sai tu?
- Sono una giornalista, te l’ho detto. So un sacco di cose sull’acqua. Tanto più che una mia amica biologa collabora con il premio Nobel giapponese alle analisi d’emergenza.
- Mi stai dicendo che è una storia vera? Esiste davvero un pericolo di contagio? Tutta questa faccenda non è soltanto una di quelle fissazioni di mia moglie e delle sue amiche fichissime?
- Ascolta, hanno mandato un comunicato stampa… – mi spiega, tirando fuori dalla tasca un foglietto spiegazzato.
Lo prendo avido e comincio a scorrerlo: “… i normali controlli dell’acqua potabile, effettuati a campione dall’azienda municipalizzata dei servizi di Ancona, hanno isolato in alcune zone della città un agente batterico sconosciuto. Al momento sembrano escludersi sia la tossicità di tale agente per le persone che eventuali possibilità di contagio. L’equipe del premio Nobel giapponese per la biologia, Haruki Horyama, si sta già occupando degli accertamenti del caso tramite collegamento in videoconferenza con gli esperti della clinica di biologia dell’Università Politecnica delle Marche. L’azienda municipalizzata si scusa per le eventuali interruzioni del servizio di erogazione idrica…” .
Devo avere un’espressione tesa, perché Marilena, mentre sto ancora cercando di capire ciò che ho appena letto, si affretta ad aggiungere: – Dicono che non c’è pericolo, ma è meglio non utilizzare l’acqua finché il giapponese non darà il via libera. Questo fattore sconosciuto che hanno rilevato, a detta loro, non è ancora chiaro se sia nocivo o meno. Qualcuno neanche si è accorto, ma qualcun altro è già nel panico. Ho sentito diverse voci in giro: gente che si è barricata in casa, gente che è stata messa in quarantena dalla protezione civile. Insomma c’è un po’ di caos sommerso. Hanno dato l’allarme, ma non vogliono che ci si spaventi troppo.
Mentre Marilena mi snocciola il suo sapere in merito alla crisi acqua, improvvisamente mi tornano in mente gli operai davanti alle Tredici Cannelle. Vuoi vedere che… la quarantena… la pseudo-tranquillità… Ho persino un’idea balorda e gliela dico subito: – Vorresti dire che quella stronza di mia moglie ha fatto bene a sbattermi fuor? Che potrei essere contagiato e magari contagioso? Non sopporterei l’idea di poter far del male al piccolo Luca.
- Su questo avrei qualcosa da ridire. Caspita siamo sempre nella propensione che tutto ciò che non conosciamo o che è diverso dal solito sia per forza nocivo. Potrebbe essere un’opportunità, invece. E se l’acqua fosse diventata l’elisir di lunga vita? O la pietra filosofale? O…
Il volto di Marilena si fa viola viola, è tremendamente accaldata ma, soprattutto, con quegli occhi ardenti di entusiasmo è anche tremendamente affascinante. Sento salire un brivido dalla base della spina dorsale, mi scuote tutto come non succedeva da tanto e solo in questo momento mi accorgo che il contatto del suo corpo contro il mio è bellissimo.
Vedo le sue labbra avvicinarsi al mio volto, per un attimo ho l’impressione che mi abbia letto nel pensiero e mi voglia baciare, ma poi va verso il mio orecchio e sussurra: – … o il segreto della felicità…
Resto interdetto. Felicità è una parola che non mi appartiene da tempo. Ormai sopravvivo.
- Che vuoi dire?
- Non lo so, esattamente. Ma è da un po’ che mi frulla in testa l’idea che forse si dovrebbe provare. Vedere che succede, insomma. – Ci sta seria mentre lo dice.
- Vuoi fare la cavia? Sei impazzita! E se fosse davvero pericoloso? Tu sei folle, lo dicevo io. L’ho detto dal primo momento che ti ho visto seduta quei sulla mia panchina.
- Non è la tua panchina, questa. L’hai solo occupata per un po’.
Quanto è pedante questa donna, però quel brivido alla schiena proprio non mi abbandona.
- Questo non c’entra niente. Non tergiversare. Lo sai bene che è una pazzia. Se l’acqua fosse diventata velenosa, la tua vita non sarebbe più la stessa. Forse non avresti neanche più una vita. Potresti morire tra sofferenze atroci o perdere tutti i capelli e i denti o… – nella mia mente cercavo ricordi di qualche scena catastrofica vista al cinema da cui poter prendere spunto.
- Oppure potrei semplicemente provare l’irrefrenabile impulso di seguire i miei desideri – butta là un po’ malinconicamente, giocherellando con la punta del piede sulla ghiaia, senza guardarmi negli occhi.
- Potrei capire che non desidero affatto sposare il mio eterno fidanzato, e magari lasciarlo così di punto in bianco senza tanti perché e per come, semplicemente dicendogli che non sono più felice. Potrei rifiutare quella favolosa proposta di Vogue perché del glamour non me ne ha mai importato un fico secco e continuare a lavorare per quel giornale di provincia per cui perdo il sonno la notte. Potrei mettermi a pedinare uno che praticamente non conosco e poi sedermi sulla panchina accanto a lui e attaccare discorso con questa storia dell’acqua per poi chiedergli se vuole uscire con me. Magari lo metterò in crisi perché, con tutti quei pensieri che gli frullano nella testa, di sentirsi dire queste cose proprio non se lo sarebbe mai immaginato. Potrei anche proporgli di bere un sorso dalla mia bottiglietta piena di acqua del rubinetto per vedere se ha abbastanza fegato da farlo e se non è così spaventato dall’ignoto, perché se lo fosse allora sarebbe spaventato anche da me. Potrebbe semplicemente succedere questo bevendo o toccando l’acqua. E tu la berresti? Saresti pronto a vedere che succede nella tua vita se non potessi far altro che realizzare i tuoi desideri?
Ho chiuso gli occhi per ascoltarla, per cercare di visualizzare le cose che sta dicendo. Sarei davvero pronto per questo?
Sinceramente non lo so.
Penso al piccolo Luca: cambierebbe qualcosa nei suoi confronti?
Penso a mia moglie: cambierebbe tutto nei suoi confronti.
E il lavoro? Gli amici? La famiglia? Cosa farei di tutto quello che ho?
Ma le domande non importano, contano le risposte.
Apro gli occhi per vedere se so darne almeno una, però Marilena non c’è più.
Sulla panchina ci sono solo io e accanto a me quella sua bottiglietta d’acqua blu.