La truffa (di Luca Barbadoro)
Moreno aveva finito il turno di notte, e aveva il piacere di lasciare i miasmi del reparto ad altre tute gialle. Già, era gialla la divisa per gli ottantanove operai, quarantaquattro uomini e quarantacinque donne, della fabbrica.
Olga, fedele al Partito, ma anche per furor popoli, era leader indiscussa degli operai, li doveva rappresentare nel rapporto con la proprietà. Il cavalier Sante Bertazzi, il padrone delle ferriere, come si diceva in quei tempi là, non era molto alto, eppure li comandava tutti e, arguto come una faina, non aveva mai praticato lo scontro frontale con le maestranze, che rivendicavano sì, ma senza affondare nelle loro pretese, verso il cavaliere che dava benessere con la sua fabbrica a tutto il quartiere.
Definirlo quartiere era forse azzardato, ma stava nascendo allora intorno alla chiesa, ancora parrocchia di campagna, unico punto di ritrovo. Anzi no, c’era anche l’emporio sale tabacchi da Giorgio. Lui l’aveva aperto con la liquidazione della Dorica Conserve. E si mormorava che in quelle settimana sarebbe arrivato anche il totocalcio o la signorina Sisal, tanto è uguale, concorso con il quale facendo pronostici sui campi di calcio, dove correvano i vari Anastasi, Pulici, Graziani, si potevano vincere, azzeccando tredici risultati, addirittura due o venti o millanta salari della Dorica Conserve in un sol colpo.
Giorgio abitava in centro e ne decantava la socialità ben più intensa, quasi effervescente, rispetto alla periferia ancora informe. Era una città commerciale, con il porto rione popoloso, con i bagni fuori dalle case molto piccole, per famiglie ancora in odor di struttura patriarcale. Le vie centrali di un lastricato tanto presente quanto venerato detto San Pietrino, dove sciamavano pedoni dagli abiti ancor modesti e pochissimi mezzi di trasporto, per lo più tram.
Le vie erano disseminate da osterie, doveva governava il vino e si incontravano e fondevano le storie cittadine.
Barbieri e sarti la facevan da padroni: insieme coi calzolari, erano loro gli imperatori del camminare, vestire, pettinarsi. Le Vespe affiancavano ormai le più anziane lambrette. Ai più fortunati le prime Saub, meglio note come Prince, o quei bolidi delle 1110 e 127, roba da far impensierire i pizzardoni (vigili urbani), sì perchè nella città che prende il nome di gomito – in greco Ankon – c’era più fantasia e non bastavano gli epiteti classici di becco o cornuto.
Poi Giorgio aveva fatto il colpo – che fosse un tredici nella sua stessa tabaccheria? – e si era presentato giù nella Piana una mattina con la 127 rossa fiammate, più rossa dei vessilli di Olga.
Qualcuno diceva una vincita, altri un lascito, Moreno un vattelo a pesca, ma non poteva esser il guadagno del giovane Emporio: hai voglia a vender nazionali e caramelle o penne a due lire per arrivare alle iperboliche cinquecentomila per la 127!
Moreno con bonaria invidia esclamava: – Giorgio con la Sisal ha portato la fortuna nella Piana, ma se la è anche ripresa.
Già, la Piana, non per parentele o similitudini con la bella Val padana – quella dopo Bologna la Dotta, per intenderci -, ma perchè il gomito è un saliscendi e quel quartiere era la parte più pianeggiante della città.
Secondo la leggenda, tramandata con racconti popolari, frutto di pura fantasia o forse veri, nel settecento, secolo dei lumi per eccellenza, lì nella piana era comparsa addirittura la Vergine che, diretta a Loreto, aveva sostato nel grano di quella periferia, non avendo presente – nemmeno nell’onniscenza che Le si attribuisce per emanazione dal divino – l’avvento futuro del quartiere né tanto meno dell’emporio di Giorgio o della Dorica Conserve.
Poi quella città insieme vitale e monotona, brillante ed opaca, frizzante e morta, perchè la verità è sempre nella lettura delle circostanze, prese due enormi schiaffi: terremoto e frana, che in dieci anni e poco più spopolarono il centro, e invasero le periferie, anche quella della Piana, dove di conseguenza arrivano i primi servizi: autobus, luci per le strade, cassonetti, etc.
Molte aziende, botteghe artigiane ed addirittura un ristorante. Quindi Giorgio non era più l’unico a far sbruffonerie con la macchina, che nella Piana si moltiplicarono. Arrivarono anche le prime strade decenti: non più sentieri erbosi, ma nastri d’asfalto ancora simpatici, perché comodi, nuovi e non intasati.
La gioventù nel quartiere era cresciuta, Moreno l’aveva vista venir su insieme a suo figlio Andrea e alla moglie Rosa. I giovani della Piana erano ormai molti: il quartiere, sotto gli occhi di Moreno e Olga, si era popolato e stavano nascendo le “seconde leve”.
Pamela, Simone, Alessandro, Emanuele, Marco ed altri. I giovani erano ospitati nelle scuole dei quartieri vicini, anche loro in forte espansione.
La via Brecce Bianche viene chiamata proprio così perché letto candido di sassi, anzi di brecci, termine nostrano di alto valore semantico e connotativo: mentre il sasso infatti ha un aspetto di regolarità concettuale al di là delle sue forme e dimensioni, il Breccio, meritevole di maiuscola per la sua tipicità ma anche per segnalarne la pericolosità, è appuntito, disseminato senza possibilità di previsione rispetto alla sua collocazione, pronto a schizzare, nemico quindi dei copertoni ma soprattutto degli occhi.
Ma Brecce Bianche diventa il quartiere, non la strada, per la sua improvvisa esplosione demografica. Anche la Piana ne riceve benefici: più si popola quel fazzoletto di città, più servizi arrivano. Lì c’è anche la scuola elementare, addirittura ci sono i doppi turni per le prime affollatissime classi ricavate da un ex-appartamento.
Insomma, Brecce non è più campi e prime strade polverose, ma quartiere con i contro ammennicoli dove si intravede anche un parchetto verde e due campi da calcio, dove si andava bimbi e adolescenti a sudare tutti i pomeriggi o quasi, sette contro sette e anche di più, e non mancavan mai le truppe, anzi c’era anche bisogno di aspettare in panchina per chi non riusciva ad esser subito della partita. Anche Brecce ora ospita nei suoi nuovi palazzi molti operai che lavorano nella Piana insieme a molti venuti dal centro.
Intanto la fabbrica di Sante aveva retto la coesistenza con l’allargamento del quartiere.
Ma in quella Piana, ormai area vasta, arriva il primo evento collettivo per la comunità: la morte di Sante, non più giovane è vero, ma ormai nel suo esser padrone corretto e rispettato, era considerato un punto di riferimento per il rione, oltre che dai lavoratori, e molti credevano che non dovesse essere mai chiamato di là, o come diceva Olga, sottoterra
Fu allestita la camera ardente nella fabbrica, mentre qualche capo reparto e Olga si interrogavano sui destini della successione alla guida aziendale. Tutti partecipavano al dolore in modo sincero, qualcuno addirittura piangendo, cosa in controtendenza a molte altre fabbriche, dove a volte faceva piangere più la presenza costante, che non la partenza definitiva, del padrone.
Il mortorio, o più precisamente funerale in lingua ufficiale, era stato molto partecipato, al punto che Olga aveva rivisto per un momento il flash-back del funerale più grande che la storia del novecento ricorda: quello del grande Enrico in piazza S. Giovanni a Roma.
Moreno, agnostico e concretissimo, invece di rivolger preci in memoria del Sante – brav’uomo, ma non da render Santo – pensava, in disparte da Olga e dai sindacalizzati, al futuro della fabbrica, e ancora più concretamente alle tre bocche a carico del suo salario: la sua, quelle di Rosa ed Andrea. Ma chi era Olga, oltre che delegata sindacale? Figlia di contadini che avevano vissuto di mezzadria più a sud della Piana, là dove quando lei vide i natali, nel ’50, non era arrivata la città, donna e figlia unica, avida di letture, sapere e orgogliosissima, dopo le medie aveva fatto due anni di avviamento professionale prima di entrare in fabbrica, passando un periodo a lavorar nella catena di supermercati più in voga dell’epoca.
Attanagliata dalla paura di sbagliare tipica dei primi impieghi, aveva conosciuto le prime rivendicazioni nel mondo del lavoro sul campo, infatti le colleghe in quel periodo protestarono e tennero dure lotte per una maggior dignità di paga e trattamento.
Questa esperienza aveva completato la sua formazione politica e teorica, infiammatasi a sostegno del nascente protagonismo femminile che nel partito chiedeva più spazi, non solo per acquisire un maggior peso nella militanza, ma per fare entrar in politica le problematiche del quotidiano, che le donne erano più brave a fotografare.
Ma Olga era anche trentenne curiosa di quegli anni ottanta che già marciavano, spinti da un boom illusorio e strombazzato, verso il disimpegno e la cultura del superfluo.
Mora, di corporatura media, l’occhio sempre incendiato dal fuoco dell’umana curiosità, che molti chiamano addirittura passione. Aveva una coerenza non ostentata, reale, figlia della concretezza contadina che l’aveva cresciuta, dove le cose hanno un loro nome che rimanda implicitamente alla sostanza, come quella degli alberi da frutta davanti alla fattoria in cui era nata giocando da piccola più con gli animali – oche, capre, cani, gatti – che con bambini. Ma la passione e l’altruismo, unita al rifiuto per la prevaricazione e per l’ingiustizia, c’era sempre stata quasi come cifra del suo dna: l’elemento costituente di questa avversione per l’ingiustizia in Olga era nato quando la compagna delle superiori, sua inseparabile amica ai tempi dell’avviamento, era stata sconvolta da un grave esaurimento nervoso per il suicidio del padre, amministratore delegato di una grande azienda finita in bancarotta.
Questi era stato spinto al suicidio dalle bugie dei suoi superiori, i quali avevano scaricato su di lui ogni responsabilità per il crack, derivato invece da operazioni illecite e disastrose per le finanze aziendali da cui il padre era stato tenuto volontariamente all’oscuro perché non avrebbe mai avvallato quelle operazioni illegali e scellerate.
Il senso di profonda dignità non aveva retto il peso di quelle menzogne, che non si erano fermate nemmeno dopo la tragedia di quel suicidio. Tutto ciò aveva rinforzato le convinzioni di Olga sulla necessità di far politica in maniera attiva perché la politica in senso alto è una proposta: se non la fai rischi di subirla.
Ma nella sua vita non c’era solo la politica.
Olga aveva conosciuto la passione amoroso a ventidue anni incontrando Renato al bar del centro nei primi anni del ‘70. Studente di medicina, lui era senza un progetto chiaro per il futuro. Non seguiva correnti politiche né dottrina religiosa. Aveva poche cose, molti libri – sempre prestiti bibliotecari -ma aveva un primo stereo in casa. Maniaco del rock, era lì che proiettava i suoi desideri di libertà leggendo avidamente le mitiche biografie dei rockers americani. Era cresciuto “di sotto”, giù in strada vicino all’abitazione posta a nord del Gomito. Nei prima fuori porta, picnic, gite, si coprivano mirabili distanze: si poteva arrivare per una merenda alla Chiusa, alla Vedova o addirittura alle cascatelle del Balcone delle Marche.
Ma nemmeno quei luoghi, bucolici ed aperti, assolati e stupendi, avevano mai colpito in modo così netto e rapido l’attenzione visiva di Renato in quel bar: si erano sospesi tutti i rumori – e dir che ce n’erano – anche gli odori di miscele di caffé espressi e cornetti caldi diventarono vittime di un’anosmia che la scienza non poteva spiegare.
Ma l’inizio di un innamoramento, o quanto meno un’attrazione improvvisa, eppure lei l’aveva conosciuta solo quella mattina, tramite una presentazione accidentale. Anzi a dir il vero anche Claudio, la persona che li aveva presentati in modo sciatto e quasi meccanico-formale, non conosceva bene Olga, se non di vista. Vacci a capire come si incontrano e scontrano le storie personali: c’è chi invoca il destino, il divino, il caso e la fortuna.
Ora si era presentata per Renato, in quel bar del centro, la fortuna di nome Olga. Ora bisognava ringraziarla e aiutarla conoscendo la sua concretizzazione terrena.
Il primo dialogo fu molto breve e Renato, assai scomposto ed impacciato, vistosamente emozionato, parlò dei suo studi in medicina. Olga, esibendo subito la sua tempra libertaria, gli domandò il suo parere circa il dibattito sui malati psichici emergente in quei giorni e Renato – pur ammettendo che la sua formazione di studente non gli dava particolari chiavi di lettura, per quella distanza che c’è sempre, fra teoria e pratica, scuola e lavoro – disse che vedeva la detenzione coatta sempre con riserva.
Da quella breve chiacchierata decisero di rivedersi.
Cosa aveva convinto Olga? Certamente non le dissertazioni disorganiche e parziali di Renato, ma il suo rossore che parlava in maniera molto più diretta e meno timida al suo amor proprio.
I concerti rock, qualche cinema, le passeggiate al viale ed al Conero, aiutarono Olga ad apprezzare Renato e crearono quell’intesa emotiva che li portò dopo appena sei mesi al matrimonio, festeggiato con gli operai della Dorica Conserve e gli amici di Renato, oltre ai familiari.
Renato con rammarico aveva lasciato medicina per portare a casa della nuova famiglia un altro stipendio oltre al salario di Olga.
Era commesso in un negozio di ottica, ma non rinunciava nel tempo libero ai suoi studi.
La successione di Sante Bertazzi alla guida della Dorica Conserve sembrava esser scivolata senza le tensioni e le preoccupazioni che poteva aprire: il figlio Glauco guidava l’azienda con molta meno esperienza ma in modo dignitoso. Ad un tratto qualcosa sconvolse la sua vita privata portando quel cambiamento della sua personalità che tutti avrebbero pagato a caro prezzo: la bellissima moglie norvegese lo aveva tradito ed abbandonato per un’industriale del piceno più ricco di lui.
Ciò lo sconvolse e lo trasformò in persona avida e cattiva, pronta a tutto – anche a gravi scorrettezze – per aumentare i profitti, in una rincorsa vendicativa al blasonato industriale piceno che gli aveva soffiato Elke, sua moglie.
Quando la sofferenza diventa padrona può sfociare in odio o, peggio ancora, in impotenza verso il destino, di cui ci si sente vittime e non più artefici: il metro e novanta della bionda e longilinea Elke aveva lasciato in Glauco non solo il peso della sconfitta e l’onta del tradimento ma anche l’odio per l’amante della moglie che non si era fatto scrupolo di insidiarla e perfino conquistarla.
C’erano due strade per uscire dal quel labirinto rivestito di frustrazione e dolore psichico: la prima, il bagno umile dell’accettazione e la ripartenza dopo l’inevitabile elaborazione del lutto da gestire con sofferenza e sobrietà nell’aspetto intimo, la seconda – quella che praticò – far invadere le sue frustrazioni nell’ambito imprenditoriale con il mito dell’arricchimento, sua costante ossessiva.
Era per quella che, comprovata dall’analisi negativa dei bilanci della Doriche Conserve, la quale invertita la rotta della gestione positiva del padre, gli affari viaggiavano a ribasso e se qualcuno o qualcosa non ne avesse invertito la tendenza si sarebbe aperta una crisi aziendale che non poteva escludere epiloghi negativi.
Ovviamente con la competenza di Sante se ne erano andate anche le buone relazione con i sindacati e gli operai: anzi, l’accelerazione della crisi era gestita da Glauco con arroganza crescente, al punto non solo di non rapportarsi più agli operai ma cercando di divederli con lo strumento di piccoli incentivi, quasi mai reali ma che facevano presa in quella fase nuova di crisi dove ognuno temeva per lo stipendio,
Olga aveva perso contatti con operai che prima avevano dialogato con lei, e ora si erano fatti ammaliare dalle strategie di Glauco che, fuor da ogni strategia, navigava sempre più a vista, con quella vista già alterata dai suo livori sentimentali.
Olga aveva indetto un’assemblea degli operai e rispetto alle prime, molto partecipate, si erano presentati solo 30 degli 80 operai, gli altri ormai erano usciti per pensionamento.
In quell’assemblea Olga aveva delineato il quadro della situazione in netto peggioramento: – È inutile, compagni e colleghi – aveva aperto Olga –, ignorare le difficoltà della Dorica Conserve dopo la morte del suo fondatore. Il figlio, dopo un primo periodo di dialogo, ha interrotto bruscamente ogni rapporto con noi sindacalisti e con i lavoratori, con l’intento palese di dividerci indebolendoci nella forza contrattuale. Non si intravedono sbocchi al crollo delle vendite delle nostre conserve ed anzi vengono costruite nel rigoroso silenzio piani di ridimensionamento del personale. Finita la relazione passo ora la parola a chi la chiede.
Parlarono in tanti rinnovando fiducia ad Olga e apprezzandone la sincerità. Ma Otello aggiunse qualcosa in più: – Penso che la fase che si apre sia realmente pericolosa per noi, soprattutto se cadiamo nel gioco di farci dividere. Segnalo ad Olga e a noi tutti di vigilare su strani movimenti presenti nella catena dell’inscatolamento delle conserve. Ho percepito qualcosa che non va ma non saprei dire cosa, i miei dubbi sono confermati dalla diffidenza delle colleghe del reparto che, se notate, hanno progressivamente abbandonato ogni contatto con il sindacato e coi colleghi inscritti o simpatizzanti.
Dopo questo intervento ci fu un prevedibile brusio di stupore e tutti rifletterono su quanto appena sentito. Marzia, amica di Nicoletta, responsabile della linea dell’inscatolamento, osservò: – In effetti anch’io ho notato queste tensioni e l’incupimento di qualche collega nei miei confronti… pensavo che era il frutto del clima pesante della nuova pessima gestione di Glauco, ma quanto sentito da Otello va verificato.
Olga garantì che l’avrebbe fatto.
Gli operai non erano usciti dalla riunione solo preoccupati, ma anche incuriositi riguardo a cosa stesse accadendo nella fabbrica a loro insaputa, convinti ormai che Otello avesse ragione.
Olga aveva chiesto subito un incontro con la proprietà: Glauco aveva negato ogni problema in quel reparto, e anzi ne aveva segnalato la maggior produttività da quando ben quindici operai avevano scelto il dialogo diretto piuttosto che la delega sindacale.
Olga non si scompose, né aspettava collaborazione. Si concentrò invece sull’incremento della produttività. Ci voleva sperare, prima che come sindacalista come operaia, ma gli erano sembrati dati sospetti e da verificare.
Ciò avvenne con l’aiuto del ragioniere capo Vittorio, che seppur non avesse mai preso la tessera sindacale per paura di perdere le sue mansioni più qualificate, era stato sempre affascinato da Olga, dal suo lavoro sindacale e forse anche dalla sua tempra di donna combattiva. Nel colloquio con Olga aveva aiutato la sindacalista a smascherare e a decriptare i bilanci.
Una stranezza era eclatante: dopo il crollo le vendite avevano subito un rapido picco in attivo ma i pomodori acquistati erano rimasti invariati rispetto a quando le vendite erano sensibilmente di meno. – Come è possibile – notò Olga – che si vendano più conserve senza comprar più pomodori?.
Prima di rispondere, il ragionerie – il quale aveva precisato che, in termini manageriali, la nuova gestione era disastrosa ed avventuriera – toccò una bottiglia d’acqua sul suo tavolo e ne versò, senza che lei glielo chiedesse, un bicchiere, porgendoglielo sotto gli occhi. Olga sorrise per salutare la gentilezza di Vittorio, che si apprestava con quelle poche frasi che stava per dire a regalargliene una ben più grande: – Vede – il lei era dovuto anche se avrebbe voluto dargli del tu – l’azienda della cui amministrazione sono responsabile dalla sua fondazione, con la morte del Bertazzi ha visto un tracollo dovuto all’arroganza e all’incapacità di Glauco – non che le mandasse a dire! -, inoltre i conti per invertire la passività non hanno, almeno per mia mano, subito trucchi contabili, per cui mi sono fatto un’opinione di come l’azienda produca più conserve con gli stesse pomodori.
- Quale è? – chiese Olga. E Vittorio, non rispondendo, rispose: – Quello che non le posso dire, le ho già offerto, però acqua in bocca!.
L’ultima esplicita interiezione di Vittorio portava una luce ed un nuovo filo nei ragionamenti di Olga, e li legava in maniera indissolubile alle supposizioni di Otello.
Glauco aveva suggerito alle operaie dell’inscatolamento di allungare la minor quantità di pomodoro con acqua corrente in ogni barattolo di conserva, operazione che non era stata smascherata da nessuno perché l’acqua diluiva la conserva e poi altri preparati chimici, forse nocivi, ne mitigavano il sapore, non facendo percepire il trucco della diluizione.
Olga aveva chiaro ormai il quadro ma doveva trovar le prove della frode. Si sarebbe consultata per gli aspetti con Renato, che aveva dei chimici fra i suoi vecchi compagni di studi.
La partita più complicata, però, rimaneva la dimostrabilità dell’alterazione industriale delle conserve.
Ma una notizia sconvolse quei giorni la vita della città. Olga, che quando era a casa con Renato tentava di lasciare fuori da quei 50 metri quadri domestici la fabbrica, mentre preparava il desco sentì: “Interrompiamo le trasmissioni per una notizia che giunge ora in redazione. I normali controlli dell’acqua potabile, effettuati a campione dall’azienda municipalizzata dei servizi di Ancona, hanno isolato in alcune zone della città un agente batterico sconosciuto. Al momento sembrano escludersi sia la tossicità di tale agente per le persone che eventuali possibilità di contagio. L’equipe del premio Nobel giapponese per la biologia, Haruki Horyama, si sta già occupando degli accertamenti del caso tramite collegamento in videoconferenza con gli esperti della clinica di biologia dell’Università Politecnica delle Marche. L’azienda municipalizzata si scusa per le eventuali interruzioni del servizio di erogazione idrica.
Ecco ora alcuni consigli del Ministro della Protezione Civile su come comportarsi: “Non c’è motivo di allarmarsi. In attesa degli esiti definitivi degli esami di laboratorio, è comunque consigliabile bere acqua imbottigliata. Evitare, in ogni caso, il contatto con la pelle, i capelli e qualsiasi tipo di inalazione”.
Ma era una notizia primaria per la vita quotidiana, altro che non sottovalutare la questione!
In città si respirò subito allarme e si rividero le taniche e i “carreggiamenti” d’acqua che già c’erano state in città al tempo del terremoto, ma anche della frana.
Glauco Bertazzi pensò subito che questa fobia dell’acqua avrebbe potuto portare ad un’intensificazione delle analisi alimentari in città, e quindi alla scoperta della truffa delle conserve diluite con l’acqua che, qualora realmente resa nociva dall’agente patogeno dell’acquedotto, poteva aggravare enormemente i rischi per la salute dei potenziali consumatori dei prodotti avariati.
Nelle stesse ore, anche le operaie che – in cambio di modestissimi aumenti fuori busta – si erano rese complici materiali della truffa, furono assalite dai dubbi e dai rimorsi di coscienza:
Soprattutto Emanuela, con due figli piccoli, si rese conto che se il padrone aveva garantito che piccole diluizioni nei barattoli non potevano aver effetti nocivi sugli acquirenti – al massimo, peggio che potesse andare, qualche dissenteria -, ora la cosa con l’acqua che poteva essere nociva cambiava la questione e le conserve diluite potevano diventare strumenti imprevedibili di propagazione del contagio.
Dopo due notti in bianco Emanuela non resse questo peso sulla coscienza e lo andò a svelare ad Olga, che peraltro aveva inviato una lettera a tutte le colleghe del reparto sospetto, affermando che sapeva ma che aveva bisogno di prove circa l’alterazione delle conserve e aggiungendo – relativamente alla nuova situazione di allarme circa l’acqua – che questa poteva esser patogena anche prima del giorno della diffusione dell’allarme in città.
Gli fornì le prove e le modalità con cui venivano alterati i barattoli. Olga con le prove voleva andare alla Procura della Repubblica ma ebbe paura del sequestro della fabbrica, che avrebbe lasciato tutti senza lavoro. Intanto Glauco, smascherato nella truffa e sempre più vicino alla bancarotta, aveva ceduto la Dorica ad una multinazionale americana. Questo aveva accelerato le manifestazioni di malcontento degli operai che, di fronte al pericolo di uno smantellamento dell’impianto locale, prevedendo e prevenendo le rituali strategie delle multinazionali, avevano ripreso compattezza tra di loro. Non si erano fermati a scioperi ripetuti ma erano arrivati a pratiche di occupazione della fabbrica.
Olga era stata brava nel guidare tali processi, senza farsi scavalcare da essi. Anzi fu sua la proposta che, per la sua radicalità, rischiava di dividere ancora i lavoratori, e invece li condusse all’eroico, imprevedibile, non facile epilogo della vicenda.
In un’assemblea tornata assiepata, Olga preparò l’uditorio ad un’idea che sembrava anche folle, ma rappresentava l’unica via d’uscita.
- Tenuto conto – attaccò Olga – che l’azienda è lanciata verso una crisi senza ritorno, la prima cosa che farà la multinazionale sarà chiuderla. Inoltre come operai, ma anche come madri e padri di famiglia, dobbiamo rimediare al problema delle partite avariate e non consentire che siano messe in vendita. Bisogna insomma dar fuoco all’intero stabilimento della Dorica Conserve.
Pochi annuirono concordi, i più restarono stupiti ed esterrefatti, alcuni protestarono subito accendendo – come voleva Olga – un confronto. Iniziò Giuseppe, uno dei più anziani, dicendo: – Ma sarebbe folle bruciare lo stabilimento, magari hanno anche l’assicurazione e, oltre a rimetter noi il posto, regaliamo alla nuova cordata americana già una fortuna con l’eventuale premio assicurativo. Guido, fra più giovani, con mutuo e moglie incinta, aggiunse: – Poi capisco chi va verso la pensione ma i giovani, quali certezza con questa strategia?.
E lì Emanuela, che con le sue rivelazioni aveva consentito di far emerger la truffa, prese la parola a sostegno di Olga, con l’ansia di chi sta per calare l’asso dalla manica: – Capisco le vostre titubanze – mi hanno talmente dominato da spingermi a tradire la vostra lealtà per qualche spicciolo in più – ma questa vicenda non è più della fabbrica, ma della città, dal momento che i nostri prodotti adulterati potrebbero avvelenare qualcuno dei nostri clienti. Inoltre se non incendiassimo la fabbrica, il suo sequestro è comunque oramai inevitabile e il nostro posto di lavoro sarebbe ugualmente compromesso: salviamo almeno le nostre coscienze.
Un silenzio carico di riflessione sembrava aver convinto la maggior parte, ma Sandro esternò altri dubbi: – Come facciamo ad evitare di finire accusati di incendio?.
Olga si aspettava questa domanda. Prese la parola iniziando anche lei a improvvisare la risposta ma poi convinse tutti: – Se non vogliamo perder il lavoro bisogna riprenderlo, anche con passaggi estremi. Noi produciamo sughi per tutti: il fatto che possano esser avvelenati è una responsabilità chiaramente aziendale. Con l’incendio ripareremo ad un torto dell’azienda che avvelena le produzioni.
Tutti si infiammarono convinti e compatti, non tanto per l’eroicità del gesto quanto perché la sua radicalità avrebbe spazzato quel clima aziendale ormai insopportabile.
Olga progettò l’incendio per la notte dopo con la naturalezza di chi compila la lista della spesa, e il terrore mai provato dell’illegalità. Le taniche di benzina ed esplosivi furono appiccate poco dopo la sirena che scandiva il cambio turno alle ventidue: ovviamente tutti a conoscenza del doloso pianificato, e per questo quasi imprevedibile dato che accordare tutti gli operai su questo epilogo caloroso della vicenda era stato non facile.
Non si seppe se le conserve fossero realmente rese tossiche, avariate sicuramente, e comunque andarono distrutte con tutto lo stabilimento.
Le fiamme altissime ricordarono ai passanti ed agli altri accorsi sul teatro della disgrazia quelle di una vicina raffineria per altezza e potenza. In realtà non per larghezza. Esse infatti non presero ad incolonnarsi in modo disciplinato ma, nella loro anarchica imprevedibilità, per un momento disegnarono l’effige della statua della libertà.
Olga apparve stupita che quella forma fosse comparsa.
Eppure era successo e quello era un buon sigillo per l’incendio. Non solo la libertà dalla nuova cordata multinazionale americana ma anche dalle truffe che quello stabilimento contro la fiducia dei più aveva creato: e dire che si era in provincia, ma si camminava stretti fra imbroglio ed orgoglio, e arriva sempre il momento di scegliere.