Beve acqua di mare (di Lorenzo Beccaceci)
Beve acqua di mare Pepi. Nelle lunghe giornate passate tra le onde, era riuscito a dividere l’acqua dal sale. La sua barca non aveva cambusa, tutte le sue provviste erano nel mare.
Indossa un cappuccio grigio che non toglie mai, gli copre solo metà del capo, nell’altra ciuffi grigi, disordinati, e intrecciati tra loro. Le sopracciglia folte, gli zigomi pronunciati e scarlatti orlano occhi neri che riflettono profondità e saggezza. La folta barba nasconde labbra sottili, solcate dal legno ricurvo di pipa che è parte di sé.
Abita alle porte della città, proprio sopra il mare, in una palafitta che lui stesso si è costruito e dove ancora oggi continua a pescare. Da una stradina incastrata tra le rotaie e gli scogli, si arriva ad un ponte di legno, consumato nel mezzo, ben ancorato a due grossi massi.
Entrando si ha l’impressione di finire in mare aperto, tanto è grande la finestra di fronte. Solo il tavolo e le due seggiole impediscono il tuffo. Al di là della grande finestra una piccola terrazza si affaccia sull’orizzonte; al centro della quale domina prepotente un robusto e lungo bastone di bambù, nella sua sommità si incrociano quattro assi di ferro alle cui estremità è annodata una rete.
Ogni mattina, molto presto, Pepi la cala in mare.
Poi, con quel leggero sorriso scende la passatoia, percorre la stradina di sassi e sabbia e lentamente si reca nella più vecchia osteria, quella di Annetta, sul porto.
In passato, quando pescava in mare aperto, appena rientrato, passava da lei: entrava, timidamente sedeva là, sul tavolo dietro la porta e, senza neppure chiedere, Annetta gli portava la fiaschetta del vino ed un bicchiere.
Sfilava allora la pipa di bocca, esalava l’ultima boccata di fumo, si riempiva il bicchiere e lo tracannava.
Ancora oggi, anche se Annetta non c’è più, si ferma per il primo bicchiere, e ripensa a quando, giovane, la osservava affaccendarsi tra uno sfottò e l’altro dei marinai di passaggio.
Fissava le sue dita affusolate praticare con i piccoli bicchieri, cilindrici, di vetro spesso, e le fiaschette rosse di vino del monte; poi lo sguardo saliva fin sui capelli, che portava arrotolati sopra il capo, ben composti, ornamentali; ora sul viso allungato e sobrio; infine sugli occhi color del mare, che tra un corpo e l’altro si facevano largo per incrociare i suoi.
Pepi si alza, come risvegliato da un’estasi, rimette la pipa in bocca, esce e prosegue lungo il molo,
Sente il lamento del mare, pressato alle banchine dal peso dei colossi di ferro che vanno e vengono incessantemente. Siede tra le familiari grida dell’asta.
Riprende il cammino, arriva là, dove uomini mascherati infiammano enormi lastre di ferro.
Pepi sale la più vanitosa via, gira un angolo e gli si aprono vetrine tanto illuminate da sembrare che il sole sorga di lì. Guarda esterrefatto il lusso, ammira un berretto di lana nero che vorrebbe tanto cambiare con il suo. Prosegue, sale ancora, ancora vetri illuminati, all’interno cose su cose, gente su gente: vera e finta; lui guarda distratto.
Ora è nella piazza che zampilla, e ancora su fino al grande spazio, dove domina un grosso uomo di pietra; prosegue, poi, appena sotto ai tigli, siede a rifiatare. Osserva distratto, come se tutto ciò che accade intorno non lo riguardasse.
In piedi e ancora su, per l’ultimo tratto che porta al grande monumento. Dietro: il precipizio, e ancora mare. In quel mare non è mai sceso Pepi, perché quello sembra non appartenergli, è di altri, di quelli dentro alle vetrine. Rimane nel chiosco, all’ombra dei secolari pini.
È ora di scendere, di andare a vedere cosa il mare gli ha regalato. Poco dopo, è nuovamente nel molo dal selciato polluto dai viandanti sempre più numerosi.
È smarrito Pepi, ogni giorno di più, soltanto il mare riconosce e sembra riconoscerlo.
Giunto a casa, si sofferma sulla vecchia barca di legno che custodisce gelosamente e che in estate riprende per solcare il suo mare.
Con sempre più fatica Pepi solleva la pesante leva, raccoglie il pesce che basterà per il pranzo e per la cena e, con gesto rituale, rigetta in acqua il restante, come una sorta di pescatico.
Ripensa allora alle notti in mare, alla fatica nel tirare le reti, nella costante tensione che il mare inevitabilmente provoca e che soltanto le luci delle lampare sparse ovunque affievoliva.
Mentre cucina, Pepi guarda la frenesia della gente da una parte, dall’altra la pacatezza del mare.
Quella gente, solitamente scostante, a lui sembra correre per sfuggire o fuggire, in una città trasformata nelle forme, nei colori, nei modi.
Quando giunge il vespro, Pepi si mette a sognare, sogna ogni notte, inevitabilmente.
Anche questa notte in cui la città è sconvolta da una notizia che la radio ha annunciato, su ordine delle autorità locali, nelle ore serali: “… l’acqua della città è inquinata. Al momento non conosciamo le cause, pertanto esortiamo chiunque a non bere acqua di rubinetto… ”. Il comunicato proseguiva: “ … abbiamo chiamato esperti del settore, compreso il premio Nobel per la biologia, il Giapponese Haruki Horyama, per far presto chiarezza sull’accaduto e porre quanto prima rimedio”.
Il mattino seguente, alle prime luci, nel calare la rete in mare, Pepi sente uno strano rumorio di fondo; non lo stesso di sempre, ma un rumore scomposto, freneticamente diverso che scuote il suo romitorio: sente sirene su sirene, clacson particolarmente impazziti, strane grida di gente. Tutti sembrano scappare.
Pepi pensa che sarà una di quelle giornate particolari, dove ricorre un santo, o un altro importante morto e tutti ne approfittano, correndo a festeggiare.
Come al solito, scende la passatoia e inizia il suo percorso.
Nulla oggi è come prima.
L’osteria è vuota, Pepi non capisce, rimane allibito. Raggiunge il mercato, quello del pesce; anche qui poca gente, differente dal solito e pronta a fuggire.
- Scappa Pepi, scappa! – gli gridano, – ma non hai sentito? Scappa, l’acqua dei rubinetti è inquinata e quella minerale è ormai esaurita.
Pepi accenna un sorriso, siede e guarda la città svuotarsi.
All’ora solita, rientra nella palafitta per cucinare il pescato. Rimarrà tutta la sera a riflettere, addormentandosi smanioso che arrivi l’indomani.
La notte piovve incessantemente.
L’alba è radiosa, appena sveglio Pepi esce frettolosamente, come se anche lui fosse stato contagiato, senza neppure calare la rete in mare: è la prima volta, non era mai accaduto in passato.
Non c’è più nessuno, il vento soffia forte, a Pepi sembra che la città stia tirando sospiri di sollievo, come volersi ossigenare, rifiatare.
Tutto intorno gli appare insolitamente nitido, pulito, nuovo.
Non ci sono neppure le grandi navi, e dal molo, oggi, si riesce a vedere l’orizzonte.
Continua il solito percorso con passo lesto, per arrivare alle grandi vetrine: le luci sono accese ed è rimasta soltanto gente finta.
Pepi si guarda intorno, entra con fare incerto, sfila il suo berretto e indossa quello che ha tanto desiderato, si guarda allo specchio ma sembra non riconoscersi, lo ripone lentamente continuando a specchiarsi.
Esce, tutto è deserto; i bar, solitamente carichi di gente e di odori, mescolano rumori di radio e televisori lasciati accesi.
Prosegue fino al palazzo rivestito di vetri, entra, sale le scale mentre scruta tutt’intorno. Arrivato alla Sala del Consiglio, siede nella poltrona presidenziale: – Entro ventiquattro/quarantotto ore – grida gesticolando – tutti i cittadini saranno obbligati a presentare alle autorità, le dichiarazioni dei redditi degli ultimi venti anni insieme all’elenco delle proprietà… In questo modo si potranno recuperare immediatamente tutti i soldi rubati alla società. – Prosegue: – Da oggi le farmacie non avranno più il monopolio delle medicine, che verranno consegnate dal medico stesso in sostituzione della ricetta non appena finita la visita; in questo modo lo Stato risparmierà enormi quantità di denaro, i cittadini avranno un servizio veloce e senza più costi, i farmacisti andranno a lavorare. Verranno anche chiusi gli uffici dei notai, che fanno un servizio inutile ma milionario, – e ancora: – le banche avranno le stesse regole dei cittadini e quindi gli stessi rischi, così che non avranno mai più la possibilità di rubare; tutto il rubato fino ad oggi, dovrà essere restituito entro sempre ventiquattro/quarantotto ore.
Con tono sempre più sostenuto, dopo essersi alzato preso dalla foga: – … le enormi quantità di denaro che lo stato si ritroverà nelle casse tra due giorni, serviranno per nuove strutture pubbliche, per i più bisognosi, per promuovere e agevolare nuove attività, per cercare le cure alle malattie, per dare ai cittadini più servizi, più assistenza, più sicurezza, più ordine e un futuro sicuro per i giovani. Si siede di nuovo, quasi privo di forse. Resta in silenzio per un po’.
- Non ho finito! – grida rialzandosi – Credevo di aver finito, ma non ho finito, c’è da sistemare ancora qualcosa: chi avrà occupato posti grazie alle raccomandazioni sarà immediatamente licenziato e sostituito da chi, nel momento dell’assunzione, ne aveva diritto o, nel caso costui rifiutasse, da altri meritevoli. Saranno chiuse le Province e le Regioni, allevamento di ruffiani, incapaci, impostori. Vili e perversi spacciatori d’inganni. Tutto sarà centralizzato nei Comuni, che avranno a disposizione ingenti quantità di denaro. Addetti dello Stato controlleranno costantemente che la gestione di tali somme sia chiara e rivolta totalmente agli abitanti. Chiunque ruberà da oggi in poi, sconterà la pena minima di dieci anni di galera e la confisca di tutti i beni; in questi dieci anni lavorerà per lo Stato, ovviamente gratis. Chiunque farà del male al prossimo avrà la pena minima di dieci anni, dovendo anche in questo caso lavorare gratis per lo Stato che, così facendo, non solo non avrà un costo per mantenere ladri, delinquenti, farabutti, ma farà utili. Al terzo reato, qualunque esso sia, il responsabile sarà condannato al carcere a vita. Gli assassini saranno spediti nell’adale.
Pepi si siede ancora, grondante di sudore; le sue mani tremano e riescono a fatica a riprendere pipa e cappuccio.
Dalla sala adiacente partono timidi applausi e sarcastiche risa; entrano lentamente uno dopo l’altro a rioccupare poltrone. Uno di loro, rivolto a Pepi: – Vattene.
Pepi esce fissando negli occhi, fiero come non mai, chi gli aveva ordinato di andarsene.
Fuori la vita sta lentamente riprendendo. L’allarme è rientrato: i miei cittadini sono tutti rientrati.
Pepi, con passo veloce, raggiunge la sua palafitta: la lenza alta, inevitabilmente vuota.