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La fontana (di Marco Marinelli)

La pulizia e l’ordine erano la sua ossessione: il pensiero che un ospite o un nipote arrivassero di sorpresa e non trovassero tutto in ordine la agitava.
L’unico momento della giornata che non viveva in questo stato di allarme continuo era la sera. Geltrude viveva la vecchiaia con dignità, con un po’ di ignoranza, ma con le sue certezze e abitudini. Gli anni le avevano dilatato i ricordi in tempi ampissimi e molte delle sue immagini e avventure di gioventù si erano cancellate.
Quando era giovane ricordava tutto, il poco vissuto era concentrato, fresco e tremendamente presente nella sua memoria, ma quando la vecchiaia aveva cominciato a sopraggiungere, pescare nell’archivio e fare pulizia era diventata un’attività normale, alleggerirsi di ricordi era per lei come scaricare il peso degli anni, e scartare quello che non riteneva più importante, o non valeva la pena ricordare, diventava fisiologico.
Le zavorre degli anni l’avevano incurvata, e liberarsi di quei pesi le era stato facile.
A queste considerazioni Geltrude non dava peso, sbirciando con un occhio il suo centrotavola sistemato con accurata dovizia, quando con l’altro gli capitò di guardare la televisione – di solito non la guardava, preferiva ascoltarla.
Stanca appoggiava il ginocchio dolorante sulla sedia e lavorando d’uncinetto si faceva accompagnare dalle voci di sottofondo.
La voce televisiva che parlava di Ancona aveva attirato la sua attenzione, ricordi della sua città divennero subito vivi e la sua infanzia tornò come per magia.
Ricordare la sua città natale le faceva sempre immenso piacere.
Ancona era sempre stata una piccola città di provincia nata sul mare e sempre ai margini della storia che aveva segnato l’Italia. Fondata dai Greci, aveva avuto il suo splendore grazie a Venezia ed alle repubbliche marinare, per poi finire sotto il dominio papale e rimanere estranea a tutti quei moti rivoluzionari dell’Italia che combatteva per unirsi sotto un unica bandiera.
Normale che le persone si spaventarono, pensò. La folle notizia di quel 15 Gennaio venne ricordata come allora in quel programma televisivo: solo la seconda guerra mondiale ed il terremoto avevano destabilizzato e fatto cadere in un panico maggiore la città di Ancona!
- Daria passami la palla! – Le urlò.
- Un momento, fammi riprovare un’altra volta.
La ragazzina tentava improbabili palleggi nel muro da una distanza troppo lunga per le sue braccia.
Geltrude guardava la sua amica mentre alla fontanella, tenendo pigiato il bottone, lasciava scorrere un po’ d’acqua fresca.
Era un’estate calda, cercava la posizione migliore per dissetarsi evitando pozze d’acqua ferma, non voleva bagnare le sue scarpe da tennis nuove.
Anche Daria arrivò alla fontanella.
- Daria, non mi schizzare – sentenziò Geltrude.
- Scusa, ti rinfreschi con questo caldo – le rispose.
Aveva messo il dito nel rubinetto, lo schizzo era partito a raggiera.
Geltrude allora aveva cominciato a sua volta a schizzarla.
La simpatica lotta consisteva nel prendere possesso del rubinetto e dirigere lo schizzo sull’amica.
La battaglia terminava velocemente con le loro magliette fradice e la faccia bagnata che gocciava. Asciugarsi le mani sui pantaloni era quasi un obbligo, tanto da farli sembrare come quelli di un meccanico.
La fontanella era il centro del parco. Non erano abbastanza grandi per darsi appuntamenti precisi, il loro pomeriggio cominciava sempre dopo i compiti.
- Andiamo ad asciugarci di sopra – disse Geltrude.
Il parco era in realtà una fortezza disposta su vari livelli e percorrendo un piccolo viottolo in terra battuta si raggiungeva un prato rialzato da cui si potevano vedere tutte le mura di cinta. Girando lo sguardo a destra si dominavano le due entrate, quella principale e quella più piccola a ridosso delle mura centrali. A sinistra il leggero pendio era coperto da vegetazione bassa e da pochi alberi.
- Sì, andiamo e ci stendiamo nel prato – sospirò Daria.
Nelle giornate di sole dieci minuti erano sufficienti per asciugarsi: il sole batteva su quel prato secco come una lente.
Erano giovani, si divertivano e si rilassavano con poco.
- Che dici, dopo andiamo a vedere di fianco al campo di calcio? – sorrise Geltrude indicando con le dita un punto imprecisato nel vuoto.
- Vuoi andare a giocare con i maschi? – rispose Daria coprendosi gli occhi con le mani per proteggersi dal sole.
- Certo, ci divertiamo molto di più, non trovi? – disse Geltrude.
Con quel salto indietro nel tempo a Geltrude ritornò in mente come era fresca l’acqua della fontanella ed il sollievo che le dava dopo ore a giocare sotto il sole, e come tremò al pensiero che ebbe quando ci fu il rischio che l’acqua non potessero più berla.
Quella fontana ossidata color bronzo, azionata da un meccanismo farraginoso e difettoso per l’erogazione, era il loro ritrovo, il richiamo naturale per le adunate di ragazzini ancora non adolescenti. La sua dislocazione strategica obbligava al passaggio: piazzata nell’incrocio era uno snodo per pedoni, biciclette e adulti che volessero girare dentro il parco.
Dietro c’erano i bagni, una brutta costruzione in mattoni scrostati; davanti, la strada in terra battuta che portava alla spianata ed all’entrata più bassa a tunnel del parco.
Geltrude ricordava davanti al suo uncinetto come quel parco riflettesse la mentalità di quegli anni degli abitanti di una città di mare: fare di una fortezza un parco era una scelta non tanto politica, ma di praticità tipica dell’anconetano.
La forma poligonale, detta a forbice, su diversi livelli, con sette bastioni nel millecinquecento rappresentava una costruzione inespugnabile, dava sicurezza e protezione al porto.
La sua forma a poligono contorta e spigolosa rendeva bene metaforicamente l’idea dell’approccio con l’anconetano medio, diffidente per natura.
Conservata con le sue prospettive e zone d’ombra rispecchiava bene le tradizioni tardo medievali della città chiusa e sicura.
Dolente e lamentosa come il suo ginocchio, era quasi un marchio in quegli anni di censura.
La Cittadella, così è chiamata, vista dall’esterno faceva rabbrividire, cupa e angolare aveva zone dove il sole non arrivava quasi mai.
“Affascinante” era il termine esatto per bambini di dodici anni per ribattezzare luoghi bui e zone poco trafficate attraversate dai viottoli, che rendevano culto a un luogo che ne aveva ben poco.
La fontanella al contrario era la zona di luce, una zona neutrale, un luogo puro, di aggregazione, dove tutti si ristoravano: potevi stare ore a cercare un’amica senza vederla, incontrarsi alla fontanella prima o poi era naturale.
L’acqua aveva un sapore un po’ ferroso, ricca di calcio da sgranare i denti. Oggi a chi soffrisse di calcoli ai reni verrebbe sconsigliata, anni fa a queste cose non si faceva caso.
Arrivarci con la bocca spalancata, sudata e stanca, e farsi bagnare dal quel getto era una sferzata di energia, un momento a cui Geltrude non avrebbe rinunciato per niente al mondo.
Riaccomodandosi meglio nella poltrona per alleviare il dolore al ginocchio allineò ancora i suoi ricordi.
La notizia del rischio del contagio arrivò un pomeriggio d’inverno alla radio: un batterio sconosciuto aveva nel giro di mezza giornata assetato la città lasciandola all’asciutto, nel caos e nel panico generale.
Si era scoperto che alcune zone che non dipendevano dall’azienda municipalizzata erano state risparmiate e proprio la fontanella della Cittadella era una di quelle.
La vena che la alimentava nasceva direttamente dal Monte Conero, un parco naturale, una zona integra e ancora incontaminata.
Quel bronzo ossidato divenne uno dei pochi rubinetti della città, e lei e Daria si trovarono espropriate del loro ritrovo, un luogo a loro caro, con cui avevano un rapporto di possesso infantile, innocente e per questo più vero.
Rappresentava il loro quartiere generale, a cui non avrebbero mai rinunciato.
Quel freddo pomeriggio trovarono la fontana transennata e guardata a vista da polizia e vigili del fuoco, senza saperne il motivo.
Persone in fila con contenitori di ogni tipo, con sguardi assenti e preoccupati che si agitavano nella ressa.
Sembrava che il destino volesse far ritornare alla sue origini la fortezza, al suo ruolo naturale da gendarme autoritario, farla ritornare improvvisamente austera e triste.
Geltrude ricordava benissimo i volti tesi e nervosi delle persone, e come si adattassero in modo naturale a quel luogo: l’attesa e la veglia erano in quella fortezza il suo essere.
Furono mandate via, in quel momento quel luogo non era per ragazzini.
Quando tutto tornò normale e l’acqua fu nuovamente potabile in tutta la città, il parco fu chiuso per qualche tempo.
Quando ritornarono, agli inizi della primavera, la vecchia fontanella non c’era più: al suo posto ce ne era una nuova con un rubinetto dorato.

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