Miracolo a Civitavecchia
Una ricorrenza cittadina allegra e chiassosa, quale la festa della patrona di Civitavecchia, si colora di oscuro: un comunicato stampa allude al ritrovamento di una misteriosa ragazza, probabilmente di origine straniera, la quale si trova ricoverata in stato confusionale presso il reparto di ortopedia del locale nosocomio. La cosa più inquietante, mentre le celebrazioni hanno già preso il via, nel loro secolare rimescolio di sacro e il profano, è che la ragazza in questione presenta strane malformazioni agli arti inferiori, evidentemente così strane da non riuscire a distogliere il pensiero da loro e lasciarlo vagare per le strade addobbate di bancarelle cariche di ogni delizia.
Mentre anche le autorità competenti sembrano brancolare nel buio, riusciranno i nostri Autori a dare un senso a questo singolare caso?
(Spunto, trama narrativa ed editing a cura di RaccontidiCittà)
Indice:
1. Sirene (racconto di Loretta Tremante)
2. Né la sposa fedele né i cari figli (racconto di Fabrizio Gabrielli)
3. L’esperienza sott’acqua I (Scheletri) (racconto di Franco Loberto)
4. L’esperienza sott’acqua II (Relitti) (racconto di Fabrizio Gabrielli)
5. Voci nello Scirocco (racconto di Fabrizio Gabrielli)
6. La sagoma del Rex che s’allontana (racconto di Serena Serrani)
7. Civitavecchia (Nomen omen) (racconto di Ombretta Putzu)
8. Avvistamento dal faro (racconto di Alice Mocci)
9. Sull’evanescenza di uno scatto digitale (racconto di Maurizio Gabelli)
1. Sirene (racconto di Loretta Tremante)
Eppure dovrebbe essere diverso, almeno in qualcosa, almeno oggi.
Invece guardalo! Guardalo, indagando intensamente l’orizzonte che riesci ad abbracciare. Uguale e diverso, diverso e uguale. Come fa sempre.
Il mare canuto. Il mare colore del vino.
(E questo suono assordante di Sirene?).
Sarà passato di qui, il polytropos? E quando, quanto tempo fa? Se è stato sull’isola di Circe, non è mica lontano: basta imbarcarsi da quell’attracco – stando attenti a evitare le banchine internazionali; oppure prendere lo svincolo della A6 (con sosta per caffè all’Autogrill).
Ancora quel rumore, senza tregua.
… chiunque i lidi incautamente afferra / delle Sirene, e n’ode il canto a lui / né la sposa fedele, né i cari figli / verranno incontro sulla soglia in festa…
Non c’è nulla di più pauroso di quei versi. È il suono dell’acqua che sale alla bocca, la sommerge.
… sedendo in un bel prato/ mandano un canto dalle argute labbra / che alletta il passeggero: ma non lontano/ non lontano d’ossa d’umani putrefatti corpi / e di pelli marcite, un monte s’alza.
Eppure dovrebbe essere diverso. Almeno oggi, 28 Aprile.
Ermanno stende un braccio oltre il caldo delle coperte e spegne la radiosveglia. È già mattino e il silenzio sa meglio di qualsiasi altro suono celebrare la dignità di partenza di un giorno. Meglio non sprecare suoni contro un cervello addormentato che chiede solo la sua dose di caffè. Ermanno scivola fuori dal letto e poggia a terra i piedi nudi. Chissà in quale angolo tra le lenzuola e il materasso si siano persi i calzini anche stanotte. Il parquet è un buon alleato del silenzio. Meglio non aggredire con il gelo dei mattoni i piedi tiepidi di sonno. L’ambiente è quello giusto per un buon inizio. Proprio ieri la casa è stata pulita a fondo e tutto sembra in ordine. Le tazzine al loro posto in ordine alfabetico per via dei nomi di donna stampati sopra, i vestiti del giorno prima nell’armadio e non su una sedia in salotto, i cuscini del divano gonfi e allineati contro i braccioli. Tutto al proprio posto. Ermanno si guarda intorno e sorride sperando che il caffè sgorghi senza spruzzare sul piano cottura. Meglio arrivare alla doccia senza macchie a cui pensare. Il caffè nella tazzina “Anna” è pronto e Ermanno lo beve amaro. Meglio non aggiungere fronzoli ad una giornata da ricordare. Oggi è finalmente il 28 Aprile.
In città i preparativi per la festa patronale sono in pieno fermento, il carroattrezzi ha appena effettuato l’ultima rimozione forzata e le strade delle bancarelle ora possono essere allestite. Gli ambulanti armeggiano tra gazebi e tavoli improvvisati, stendono teli, sistemano giganti leccalecca a forma di Hello Kitty e infilano perline per le ultime creazioni di etnobigiotteria mentre dai megafoni si diffonde l’invito dell’arrotino alle donne, casalinghe, massaie. Il clima è quello di tutti i giorni per gli ambulanti, battute pesanti sui nuovi arrivati e i loro gel colorati per piante, frecciatine per chi affetta verdure con entusiasmo e maledizioni contro se stessi per aver scelto proprio quel lavoro. “mannaggia a me e a chi me l’ha fatto fa’. Ahhhh, ma questo, giuro, è l’urtimo anno. Basta co’sta vita. E te sveji presto e fa freddo poi pare sempre che è ‘r giorno giusto e nvece ‘n se fa na’ lira. Bisogna fa’ come coso lì come se chiama… ’Rmanno che se n’è annato in messico a venne le collanine. Dice che sta na’ favola”. Ogni anno le stesse parole. La vita dell’ambulante è faticosa. È fatta di sveglie all’alba, umidità, chilometri da percorrere in macchina verso una sagra di paese o un mercato rionale, allestimento del banco, sorrisi e sconti, urla e canti popolari e, alla fine della giornata, spesso già a notte fonda, si ricomincia al contrario: si smonta il banco, si carica la merce sul furgone, si macinano chilometri per tornare a casa e riposare solo fino all’alba perché si ricomincia.
Il 28 Aprile, ad esempio, è il giorno di Santa Fermina. I festeggiamenti patronali iniziano dal primo pomeriggio quando la statua viene portata in processione e in mare per benedire i pescatori. I cittadini si ritrovano lungo le strade che vedranno sfilare la santa dove tra chiacchiere, saluti e ammiccamenti nel caso di politici o relazioni clandestine, si sparpagliano tra le bancarelle e i tavoli all’aperto dei bar. Sembrerebbe una buona occasione di guadagno per gli ambulanti che infatti accorrono ogni anno più numerosi. Le amministrazioni comunali che si succedono aumentano ogni anno i permessi da concedere e nuovi ambulanti presentano la domanda di autorizzazione. Così ogni anno, tra autorizzati e abusivi, le strade si riempiono di novità.
I bambini fortunati si svegliano un po’ più tardi visto che sono liberi dagli impegni scolastici e i loro genitori non lavorano. I figli dei pendolari invece diventano un peso. Spesso finiscono all’alba a casa dei nonni o, nel peggiore dei casi, dalla vicina di casa anziana che benedice l’occasione per smaltire i biscotti stantii. Così il 28 Aprile per la maggioranza dei bambini inizia in una casa con la carta da parati marrone e l’odore di pelle fritta dal talco. L’idea che a questo seguiranno sacchetti di noccioline e bastoncini di zucchero filato rende più sopportabile l’inizio di giornata. Si spera forte in città che il treno carico di genitori stanchi arrivi in tempo per la processione e le bancarelle. Federico anche quest’anno, pettinato con la riga che tira tutti i capelli da una parte e la faccia di chi non se ne rende conto, è parcheggiato dalle sei di mattina a casa dell’anziano vedovo Dott. Pattata, al terzo piano. Federico ha cinque anni, è già al secondo anno di scuola dell’infanzia Flavioni, sezione B, e tutti ridono quando dà da bere alle piante con l’annaffafojo. Inghiottito dal divano con le spalle curve e i piedi penzoloni spinge l’indice della mano destra sul cuscino, lungo il cunicolo tra una costa e l’altra del velluto verde. Arrivato in fondo preme il dito più giù e lo fa riemergere all’insù con lenta perizia per non perdere nulla ed esaminare la scoperta. Federico osserva quel cumulo grigio e, ad ogni esplorazione, cerca una sorpresa. A volte sono peli di gatto e a volte, e quelle sì che sono novità, ci sono dentro delle minuscole cose che luccicano. Trovare delle briciole significa che anche il Dott. Pattata fa merenda sul divano guardando Dragon Ball ma quelle cose che luccicano proprio non si capiscono. Sembrano quelle che Federico si ritrova in faccia quando, sul portone della scuola, si pulisce dal bacio della mamma. Vuoi vedere che la mamma accompagna a scuola anche il Dott. Pattata?
In città sta per accadere una cosa nuova per un 28 Aprile. Le sirene della polizia e un certo fermento nelle redazioni del giornale l’annunciano. Anche l’onda inquieta che movimenta il pronto soccorso del San Paolo. Lo staff di ortopedia al completo è presente e teso. Nessuno beve un caffè o pensa a nascondersi per una sigaretta. Da un momento all’altro potrebbe arrivare l’ambulanza con a bordo quella donna (una donna?). La capitaneria di porto ha dato l’allarme a gran voce. L’appuntato si è subito messo al telefono e ha diramato il comunicato: “È bionda, giovane, non identificata, colle gambe strane e sanguinanti”, (anche bella, ha pensato fra sé).
La notizia si diffonde a suon di squilli di cellulare, segnali di avviso di sms, voci al telefono e nei bar. I pensionati del gruppo ciclistico vengono avvertiti dalle nuore affannate, i pescatori all’antemurale da un gruppo di adolescenti su rumorosi scooter truccati. A nulla valgono i rimbrotti dei pescatori: “Lo volete capì o no che se arrivate su ‘sti cosi co’ tutti ‘sti rombi ce fate scappa’ li pesci?”. Tutti i giorni le stesse parole al vento, ma oggi almeno non sono arrivati solo per fumare nascosti tra i piselloni di cemento dei silos ed è meglio non mortificarli perché “già se sentiranno emozionati dall’arrivo de’ ‘sta nuova regazza in città”.
Federico ha appena scoperto da dove la mamma prende le caramelle. Succede che lei apre la mano e c’è una gelatina alla frutta o, quando è un giorno brutto, una cosa piccola che pizzica la bocca e fa freddo, soprattutto se dopo bevi acqua. Sotto i cuscini di quel divano ce ne stanno tante e sono pure già scartate. Basta infilare il braccio sotto il cuscino, chiudere la mano e tirarla fuori. Quando la apri devi guardare bene perché non ci sono solo capelli di gatto e cosette che luccicano, qualche pallina se la infili in bocca è dolce e sa di fragola. A Federico almeno succede così. Beh, lui, si sa, è magico. Ecco perché luccica sempre.
Il Dott. Pattata sembra arrabbiato. Strilla al telefono e Federico pensa: “Vuoi vedere che gli hanno rubato la palla pure a lui? Che dice? È stata la sirenetta?”.
Intanto in città circolano diverse voci sull’identità della ragazza. Dall’ospedale si sa che è stata ricoverata in stato confusionale ma soprattutto che tenteranno un’operazione complicata alle gambe. Ciò che però veramente non si capisce è che cosa ci faccia una ragazza mai vista prima a Civitavecchia. E perché proprio il 28 Aprile.
Alcuni dicono che sia figlia di un pezzo grosso di Gaeta, una che ha a che fare con i lavori nel porto e questo basta per spiegare tutto. Anche il gelo delle espressioni contratte nel silenzio che le accompagna da sempre. Altri dicono che si sia cucita le gambe da sola, nell’estremo tentativo di non cadere più vittima di drammi sentimentali. Sembra che non avesse proprio previsto di scivolare dal ponte della Majestic in rotta verso i porti mediterranei, altrimenti avrebbe almeno scritto due righe di commiato dal mondo, almeno per vendetta. Voci confuse, che si sovrappongono. In alcuni salotti si sussurra che la donna sia stata buttata in mare per cancellare le tracce di un esperimento scientifico mal riuscito, probabilmente legato alla nuova centrale. “Chi altri sennò?”.
Solo per dovere di cronaca è opportuno menzionare che c’è anche chi si sta dando da fare per stampare l’immagine della ragazza con le lacrime agli occhi o quella di sé con la ragazza in mano. Chi ha già sbirciato le foto dice che sono lavori buoni, scattati con una discreta messa a fuoco ma che un elemento stona distogliendo l’attenzione. È un grosso anello tempestato di pietre. “Chi altri sennò?”.
Le chiacchiere animano la città ma è quasi ora di pranzo e bisogna darsi una mossa per non fare troppo tardi altrimenti trovare un parcheggio sarà un’impresa impossibile. Anche chi vuole raggiungere a piedi le strade della processione deve partire con un buon anticipo. Del resto oggi non è un 28 Aprile come gli altri. C’è molto di cui parlare e le soste con chi si incontra lungo la strada oggi richiedono molta più attenzione del solito. Anche chi da anni preferisce non scendere in strada mette da parte l’avversione verso le grandi manifestazioni e si fa guidare dalla curiosità di saperne di più.
Il sole si è fatto largo tra le nuvole e splende di primavera. È ora di pranzo e anche a non volerlo sapere il suono delle forchette contro i piatti che esce da ogni finestra semiaperta lo rende evidente. I vestiti buoni, ripassati con il ferro da stiro il giorno prima, campeggiano sui letti o dalle grucce arrampicate sulle ante aperte degli armadi. Gli ambulanti versano l’ennesimo caffè dalle bottigliette di vetro del bar. Stavolta ha offerto quello che scrive i nomi sulle tazze. Federico prova a concentrarsi per concentrarsi per far suonare il campanello. Quando ci riesce appare la mamma, di solito. Oggi però non funziona.
2. Né la sposa fedele né i cari figli (racconto di Fabrizio Gabrielli)
Vi capita, a volte, di pensare che sia già stato tutto scritto? (E poi come!). Che già prima (molto prima) di essere saltato fuori dal pennino, dall’impolverata tastiera, Maffelli si sia inabissato e perso, per via di questi suoni che non tacciono?
Peggio! (molto peggio): a volte sembra che tutto sia già successo. Solo che oggi, non vedremo profilarsi una nave nera da Ilio, ma invece un treno carico di genitori stanchi. Allora, ammettetelo, sembra che nulla succeda mai capace di risvegliarci, di percorrere e scuotere le nostre menti e i nostri corpi con una scarica di adrenalina. Sembra tutto solo apparenza, in quegli istanti: un gioco stropicciato e liso per giocatori con cera calda su occhi e orecchie. Dove non sorge mai veramente un alba, mai, tanto meno, una vera alba di Festa. (Sappiamo tutti troppo bene, infatti, che né i cari figli, né la fedele moglie tratterranno Maffelli sulla chiglia).
I passi rapidi sul corridoio della corsia producono un ticchettio assordante nell’atmosfera grave del nosocomio; sembrano quelli di gerarchi convocati d’urgenza nella sala dei bottoni per decisioni della più alta priorità. Il dottor Maffelli, primario del reparto di ortopedia del San Paolo di Civitavecchia, tanta austerità non l’ha trovata neanche il giorno in cui ha discusso la tesi davanti a quel luminare che, di lì a qualche anno, sarebbe entrato a far parte dello staff medico del Sommo Pontefice. Ad accoglierlo, in una stanzetta in fondo al corridoio sorvegliata a vista da due poliziotti armati, ci sono il vicequestore Trentin, qualche faccia anonima da assessore a questo o delegato a quell’altro. “Maffelli, pensaci tu”, sembrano implorarlo all’unisono quando la porta si spalanca e l’immacolato camice fa il suo ingresso trionfale, seguito da un corteo di infermieri e due studenti laureandi blocknotes-muniti.
Sul letto, una ragazza.
Povero ingenuo, il dottor Maffelli!
E dire che pensava di dover fronteggiare un sultano di qualche emirato sperduto tra le dune del deserto, magari resosi protagonista di una goffa caduta dalla passerella del suo yacht ormeggiato al Riva di Traiano, con conseguente rottura del quarto metacarpo!
“Corra urgentemente al reparto, dottor Maffelli!”, gli avevano comunicato sul cellulare.
“Oggi dottor Maffelli lo tenga spento, quel coso, e veda di dedicarsi alla sua famiglia”, lo aveva vanamente esortato, poco prima, sua moglie. Nella stanza accanto, la piccola sognava palloncini gialli e fuochi d’artificio da magnificare. Con la bocca aperta, in segno di sbigottimento. Ma la mano del primario, d’istinto, s’era allungata a raccogliere l’irrinunciabile mezzo di schiavitù tecnologica. Prima che squillasse, troppo tardi perché non rispondesse.
In macchina, mentre divorava semafori, gli era balenata l’idea che si trattasse di qualche brutta caduta, dell’ennesima vittima delle rotatorie cittadine, dell’impudenza del guidatore civitavecchiese proverbialmente poco aduso al rispetto del codice della strada. Ne aveva raddrizzati pochi, di péroni! Ne aveva sfornate, lui, di tibie chiodate!
“Sì, sì, sto arrivando, datemi tempo!”. Il dottor Maffelli, al divieto di parlare al cellulare mentre si guida, non ha mai prestato troppa attenzione. Lui è un paladino della sanità. Certe cose gli si possono perdonare.
“Signor assessore, ha detto che sta arrivando”.
L’assessore, con la mano, fa segno d’aver capito. Guarda preoccupato il vicequestore, passeggiando nervosamente su e giù per la stanza.
“Certo, ci fosse stato il sindaco avrebbe risolto in quattro e quattr’otto il mistero”, scherza Trentin. “Oppure c’avrebbe scritto un libro”, aggiunge il poliziotto di piantone sulla porta. Si ride per stemperare la tensione.
Davanti al pronto soccorso, gazzelle della polizia. Maffelli aveva allora carrellato sulle possibili soluzioni, rapidamente, quasi scartabellando. In rassegna erano passati: tentata evasione con seguente precipitoso rovinare al suolo e fratture multiple; femore ceduto per implosione sotto l’obesità di un turista texano in vacanza di piacere sulla Queen Elizabeth II; calciatore famoso di serie A crollato in amichevole sotto i tacchetti (ben più rudi e) famelici del nuovo terzino della Civitavecchiese.
Mille altre possibilità vengono contemplate mentre si indossa il camice. “Buongiorno dottore”, si presentano i due studenti impegnati nel tirocinio. “Andiamo”, dice serioso il dottore. Durante il tragitto non si scambia una parola, né una che sia una, fino all’ingresso in corsia, nella stanza.
Il dottor Maffelli si avvicina alla degente. “Età”, chiede, ma nessuno risponde. Trentin lo prende da una parte. “Vede, dottore, la ragazza non ha documenti. È stata ripescata in mare stamattina all’alba. Deve essere stata immersa a lungo in acqua, era semiaffogata ed in stato di incoscienza. Non parla, almeno nessuna delle lingue in cui abbiamo provato. L’assessore, qua, ha provato pure in francese” – a Maffelli sembra di vederlo gonfiarsi d’orgoglio, il buon assessore, fiero del suo savoir faire français –, “ma niente. Farfuglia parole che non riusciamo a decifrare. Gesticola molto, le abbiamo anche dato una penna ma tutto ciò che abbiamo ottenuto sono sgorbi e scarabocchi. Non sono psicologo, dottore, ma ho una lunga esperienza. Lo stato emotivo le impedisce di ragionare con lucidità o articolare segni grafici”.
Maffelli lancia uno sguardo alla ragazza. I capelli biondi le incorniciano il viso, occhi chiari, tratti mitteleuropei.
“Avete provato a sentire qualche rumeno? Sono tanti, qua in città, e si conoscono un po’ tutti…”. “Abbiamo convocato Padre Mitrea, il parroco che si occupa di aiutare la comunità, ma senza risultato. Non la conosce, non l’ha mai vista, e sì che tutti i rumeni, in un modo o nell’altro, passano da lui quando arrivano a Civitavecchia. Con o senza permesso che siano…” – e nel dirlo il vicequestore sembra non voler trascendere in discorsi che lo porterebbero a dire più di quanto possa o voglia. “Comunque, dottore, non stia a preoccuparsi di chi è o non è. Il problema è un altro…”. Il poliziotto sfiora nervosamente la calvizie, testando l’interrogativo dipinto sul volto del primario.
“Venga, e guardi qua”, lo invita, mentre con un colpo secco solleva la coperta che nasconde il corpo della ragazza dalla vita in giù.
Il dottor Maffelli, per un attimo, sente il respiro mancargli, come quel giorno mentre raggiungeva la cattedra dove ad attenderlo c’era la commissione di laurea presieduta da quel luminare che, di lì a qualche anno, sarebbe entrato a far parte dello staff medico del Sommo Pontefice.
Riprende tono. “Le gambe presentano un leggero valghismo. Che strano però…”, medita il primario, “cosce pressoché attaccate fino alle ginocchia, poi un lento divaricarsi… E queste strane membrane…”. “Sembra una pinna caudale..”, gli ruba le parole il laureando, abbandonatosi più al fascino del misterioso che all’impassibile deontologia ippocratica. Questione di attimi, perché Maffelli lo fulmina con lo sguardo, e lo studente, mentre le guance si fanno rubizze, si ritira nel suo prendere appunti. L’ortopedico sfiora il dorso del piede, risalendo su tibia e perone, fino alla rotula. Meglio, risalendo laddove dovrebbero esserci tibia e perone, fin dove la protuberanza ossea della rotula dovrebbe essere chiaramente percettibile.
“Fratture multiple scomposte”, diagnostica, “ma aspettiamo le radiografie”.
Il dottor Maffelli indugia sull’arto molle della misteriosa degente. La cute, grinzosa, scivola sotto i suoi polpastrelli; potrebbe trattarsi di un eccesso di secrezione sebacea – pensa – dovuto all’eccessiva esposizione all’acqua salina. Ma una seborrea così non s’è mai vista, neanche nelle diapositive a lezione, né sui testi, né negli incubi più splatter di chi generalmente fa incubi splatter.
Quelle gambe sono bluastre, quasi argentee.
“Hai visto, sembrano squame” – si sente dire dai due studenti impegnati in un fitto confabulare. “Signori, quante nozioni da bestiario devo ancora sentirvi snocciolare?”, esplode allora Maffelli, girandosi verso gli allievi con tono seccato, regalandogli il quarto d’ora più imbarazzante della loro carriera universitaria, forse della vita intera.
La ragazza, inerme, fissa il medico chino sulle sue gambe. Non dice una parola, solo lo fissa, con una strana luce negli occhi, come di chi ti esplora nel profondo, lanciandoti messaggi più chiari di mille sillabe e di cinque o seicento gesti delle mani. Il dottor Maffelli sente le tempie imperlarsi di sudore. La voglia di decifrare quel piccolo ma enorme enigma medico lo attanaglia senza dargli tregua, con la solita attitudine metodica passa in rassegna patologie e deformazioni, possibili diagnosi subito scartate, poi riproposte, poi scartate ancora, come uno studente che all’interrogazione tentenna, ritratta, medita, pondera. Poi si ferma per un attimo, con lo sguardo verso l’alto. In quei casi, lo studente – ed il dottor Maffelli lo sa perché è stato anche lui, a prescindere da quanto meritevole, membro della categoria – è impegnato nella quadratura del cerchio: solo risolto quel quesito saprà dare la risposta giusta, o deciderà di congedarsi e tornare all’appello successivo. Una volta un suo amico aveva rinunciato ad un diciotto in Patologie II. Due anni dopo gli depositava una multa sul parabrezza, i sogni medici rivestiti di giacca blu notte, la mascherina sostituita dal fischietto.
Non è da Maffelli gettarsi in conclusioni affrettate. “Effettuiamo tutte le analisi del caso; prelievo, radiografie, check-up dermatologico”. “Il conciliabolo è aggiornato a domani”, comunica, imboccando il corridoio della corsia.
“Dottore, aspetti”, tuona una voce nel parcheggio.
Il vicequestore, occhiali da sole a schermare lo sguardo severo, si avvicina con passo lento all’auto di Maffelli. Si sfiora nervosamente la calvizie. “Domani mi dice chi o cosa è quella ragazza, dottore?”. Ma non sembra un consenso deciso, quello che il primario accenna appena, salendo in macchina. È un “sì” balbettato, confuso, eppure deciso, solenne.
I semafori, gli stessi, si lasciano fagocitare dalla monovolume del medico.
Nelle rotatorie prevale, come sempre, il caos.
O se si preferisce, anagrammando, il caso, ma quello con la c maiuscola, che decide chi ha la precedenza nelle strade civitasvetuline.
Il Caso è arbitro incontestabile. Si nasconde ovunque, poi. Talvolta persino nel gracchiare, solo apparentemente innocuo, di indecifrabili frequenze di autoradio:
Stai crollando anche tu, integerrimo Maffelli, arrabattandoti in spiegazioni che non troverai nei testi polverosi di anatomia a te tanto cari. Cerca più in là, incorruttibile Maffelli, tra gli sguardi sbigottiti e le gocce di sudore, tra la paura ed il dubbio, lo stupore e la mirabilia. Perditi nelle illustrazioni dei Liber Monstrorum, i racconti dei marinai settecenteschi, il trasudare atavico dei muri di cappelle dimenticate da Dio e dalla gente. Lasciati catturare dalle spirali fumose della fantasia e dalle squame rilucenti del basilisco.
Tra le sue spire è la spiegazione, la Verità.
Seguimi nel regno dell’impossibile e dell’inspiegabile, fatti avvolgere dalle onde spumose e dall’azzurro degli abissi. Innamorati di me, perché non puoi fare altrimenti. Ti sussurrerò le parole più incomprensibili, ti rivelerò l’arcano e saremo felici, quando coltiverai per me fiori adornati d’ambra e cristalli di sale.
Ed è subito sera.
Gli ultimi tranci di croccante finiscono nei sacchetti dei ritardatari, la statua di Santa Firmina è tornata nella penombra profumata della cappella di Fortezza Giulia. Le auto riprendono a circolare per viale Garibaldi, lente, soporifere. Tutti sono allegri a Civitavecchia, stasera, e appagati come lo si è a fine festa, quando si ripongono le lingue di Menelik e si tira tardi carezzando i brandelli sfilacciati di una notte blu di prussia.
Una signora, visibilmente preoccupata, siede di fronte al vicequestore.
Tra le onde, sotto la finestra, le pance sventrate dei fuochi d’artificio riposano il sonno dei vinti. Nella scrivania di fianco, l’appuntato dattiloscrive la deposizione: “La qui presente signora Spori Anna dichiara che il coniuge Maffelli dottor Armando, primario del reparto di ortopedia dell’ospedale San Paolo di Civitavecchia, allontanatosi da casa in seguito ad una chiamata d’emergenza pervenuta dal posto di lavoro, non faceva ritorno presso il suo domicilio e risultava irreperibile sul telefono cellulare”.
Gli uomini del vicequestore avrebbero ritrovato l’utilitaria abbandonata solo qualche giorno dopo, in località Sant’Agostino, comune di Tarquinia, parcheggiata in riva alla spiaggia, senza alcun segno di scassinamento, né traccia di colluttazione a bordo.
L’ipotesi dell’allontanamento volontario, l’unica plausibile.
Del dottor Maffelli, nessuna traccia.
Ma questa è un’altra storia.
3. L’esperienza sott’acqua I (Scheletri) (racconto di Franco Loberto)
Ciò significa che potrebbe essere ovunque, anche qui, vicinissimo. Un qualsiasi fondale fra i più frequentati – la buca di Nerone, la rada del Bicchiere – potrebbe averle ospitate, prima, e, quindi, lentamente, ricoperte di sabbia, detriti e putrescenti alghe.
Uno vorrebbe tanto non cercare, non guardare, allora, perché sa che non deve farlo. Sa che è giusto non farlo.
Ma poi è più forte di lui.
Allora – zac – tuffa sotto la testa e, fra le onde, lo vede, quello spaventoso monte: péroni saldati con arrugginite piastre, bacini e menischi e anche, baluginanti teschi, omeri saldati per non cadere vittime di sentimentali drammi; falangi e metacarpi interi affondanti nel cemento saldo di Gaeta.
E poi (peggio!), sulla cima, malformazioni psichiche, maleodoranti squame di pensieri, orbite cave attanagliate dalla voglia di risolvere piccoli misteri e gossip (con attitudine metodica ma forse cieca); turpitudini e cancrene di sentimenti (lì, fra gli ammonticchiati teschi); che né prelievi, né radiografie, né check di alcuna sorta riusciranno a risolvere mai. E scheletri di sogni putridi in enormi scolorati containers, provenienti dal mondo intero, da Itaca ad Hong Kong.
Tutta roba che conosci bene e collezioni, ahité, onesto e rude Capo Caccia.
“Ma tu lo sai qual è il vero nome di questo Forte che di Michelangelo non ha proprio nulla se non che un giorno lui è passato di qua mentre lo stavano costruendo e ha detto “bello, bello” e se ne è andato?” – dice Enzo, rivolto al giovane militare di guardia – “Fortezza Giulia, si chiama!” e rincalzando spazientito: “ma tutti si ostinano a chiamarlo il forte Michelangelo. Anche la segnaletica del Comune è sbagliata. Maremma bona!” – e dopo un sospiro rassegnato aggiunge: “La gente parla, parla e non sa quello che dice!”, sentenzia con asciutto accento toscano. Enzo di asciutto ha anche il fisico e il viso, scavato dalle rughe, quello dei marinai, cui sole e salsedine non lasciano scampo.
Enzo Caccia, per tutti Capo Caccia, fa la guardia costiera da più di trent’anni: “prossimo alla pensione”, come ama sempre aggiungere. Lui il Forte lo conosce come le sue tasche: dopo venticinque anni che ci abita dentro non ha più segreti per lui.
Nel corpo di guardia, all’ingresso, i marinai di primo pelo fanno i turni. Armati di pazienza consumano sigarette e contano le ore noiose che li separano dal permesso che consentirà loro di raggiungere la ragazza lasciata a casa.
Nel Forte non succede mai nulla fuori dell’ordinario e, terminati i turni di lavoro in mare, Enzo si rifugia nei suoi magazzini che ne delimitano il piazzale di settanta metri per cinquantacinque. Come un’ape operaia si dedica con dovizia e cura meticolosa a sistemare, ripulire, riordinare, mantenere efficienti le attrezzature da sub. Scaffali e ripiani ordinati su cui, nel lento scorrere del tempo, ha riposto arnesi e marchingegni come in un supermarket al punto che se entri e sei soprapensiero, ti viene da cercare il prezzo per metterli nel carrello e avvicinarti alla cassa.
È felice quando riceve visite nel suo covo. Nei suoi occhi chiari passa un lampo di infantile gioia mentre mostra i cimeli rinvenuti sui fondali: coltelli da sub di tutte le misure, bussole, ancorotti, pinne spaiate, gavitelli, la bandiera del Peter Pan – un relitto affondato che sta sotto a trentacinque metri –, mentre nelle aiuole del piazzale del forte giacciono i resti di colonne e capitelli di marmo rinvenuti durante le spedizioni fatte per conto dei “beni culturali” che, come dice lui: «siccome non valgono niente e sono ingombranti, non sanno che farsene e ce le hanno lasciate qui».
Se i missionari vanno in giro a convertire le genti al cristianesimo, Capo Caccia cerca di convertire i terrestri all’esperienza submarina. Questa è la vera missione della sua vita: portare la gente sui fondali marini. Parli con lui ed immancabilmente la sua passione per il mare lo porta a chiederti, in qualche angolo della conversazione, se hai mai fatto il sub o se ti piacerebbe farlo: “Domenica mattina mettiamo in acqua il gommone per provare il motore nuovo, vieni che si fa un’immersione qui vicino, alla buca di Nerone. Per l’attrezzatura non ti devi preoccupare, te la presto io…”.
“Capo, quanto tempo avete impiegato a raccogliere tutte queste cose?”
“Quando tu ancora ciucciavi il latte io rovistavo i fondali in cerca di tesori, caro il mio Bragonzi”
“E li avete trovati?”
“Io sognavo galeoni e forzieri…”
“E che ne è stato?”
“Li sogno ancora…”
“Qual è stato il ritrovamento più importante, Capo?”
“Un container ancorato quaranta metri sott’acqua”
“Era finito fuori bordo?”
“Bragonzi, vabbè che sei una recluta e che per di più vieni dal Monte Amiata e non si capisce cosa un montanaro ci faccia nella Guardia Costiera ma, beata ingenuità, il container era carico di merce che scottava!”
“Scottava sott’acqua?”
“Era carico di cocaina, Bragonzi!”
“E perché?”
“Ma il tu babbo e la tu mamma che ti davano da mangiare, pane e volpe? Eppoi fa andare quelle braccine con un movimento continuo: la scopa non serve per appoggiarsi ma per pulire, dai una bella ramazzata e poi vai, vai, che c’ho da fare”.
La radio a transistor del laboratorio è sempre accesa. Le condizioni del tempo attirano magneticamente ogni marinaio, anche quelli che fanno servizio a terra.
“Venti di libeccio han detto, Bragonzi, ma questo è grecale bello e buono! Non ci si può mai fidare dei metereologi, questi mi sa che la mattina stabiliscono il tempo coi calli dei piedi”.
Dopo le prime notizie economiche e politiche si interrompe il jingle pubblicitario e una voce seria annuncia: “Ultima notizia di cronaca: è stata ripescata questa mattina all’alba, al largo del porto di Civitavecchia, una giovane donna sulla cui identità sono ancora in corso di svolgimento le indagini. La ragazza, probabilmente di origine straniera, è ricoverata in stato confusionale presso il reparto di ortopedia del nosocomio cittadino. Presenta strane malformazioni agli arti inferiori. Al momento non risultano denunce di scomparsa da parte di cittadini o di turisti in transito presso le banchine internazionali del porto. Si invita dunque, chiunque possa fornire informazioni utili, a rivolgersi alle autorità competenti…”.
“Maremma bona! Me lo sentivo che sarebbe accaduto qualcosa. Era nell’aria!”.
Come un lampione che restituisce la vista ad un vicolo cieco, l’intuizione si fa strada nella mente di Enzo ricollegando improvvisamente alcune curve alle strade più frequentate.
“Ieri, prima mi rallenta e poi in serata si ferma il cronometro che tiene il tempo con l’impulso dell’orologio atomico di Francoforte. Dono della protezione civile per l’opera prestata durante il terremoto di Tuscania: antishock, anticrash, movimento perpetuo, errore stimato di un minuto nell’arco di dieci miliardi di anni. E lui che fa? Si ferma!”.
“Capo, proprio a voi che stabilite e controllate i turni di guardia e che i tempi del forte girano col vostro quadrante”.
“Poi Merlino scappa per correre dietro a quella cagnetta, uscendo dal portone del Forte lasciato incustodito dal Tarolla che, oltre che recidivo, è stato pure strafottente e se potessi lo metterei ai ferri e gli sospenderei ogni permesso da qui al congedo. E tu, Bragonzi, da allora l’hai più visto, eh? Deve ancora rientrare, quel bastardo…”. Asciugandosi la fronte: “Oltretutto il cane, essendo senza museruola, ha spaventato una turista americana sovrappeso di brutto ferma sulla banchina e questa ha cominciato a sbraitare ed è arrivata la polizia pensando ad una rapina. È stato solo grazie all’ispettore Romiti, mio amico e collega nella protezione civile, che non si è arrivati all’incidente diplomatico”.
A Capo Caccia tutto sembra sfuggire di mano.
“Sarei dovuto uscire io di vedetta ieri sera, se non era per quell’impiccio con la turista… e invece sono usciti quei novellini, compreso il Tarolla. Sicuramente si sono imboscati in qualche parte a dormire, sennò lo avrebbero segnalato il trambusto che c’è stato proprio qui fuori dal porto”.
“Mi sono perso il salvataggio di quella ragazza ed in più lo vengo a sapere dalla radio e non dai miei uomini. Ma quella tipa che ci faceva al largo, fuori dal porto e per di più con le gambe fuori uso, la sirena?”.
“Capo Caccia!”, chiama con voce timida il piantone di turno, affacciandosi al portone del magazzino attrezzature subacquee. Enzo sta cercando di sostituire la guarnizione O-ring – un piccolo anello in gomma nera che, tanto per capirci, ha dimensioni tali da riuscire ad infilarsi solo nella prima falange del dito mignolo – nella rubinetteria della sua bombola preferita. La guarnizione O–ring gli cade dalle dita che erano giunte ad inserirla quasi tutta nella sua preziosa sede: “Che c’è?!” risponde con tono alquanto scocciato.
Il piantone sa che capocaccia non deve essere assolutamente disturbato quando sta in quel magazzino ma, fattosi coraggio e con un filo di voce, che peraltro gli esce roca e gracidante, sussurra come per tentare di dare meno disturbo: “Ha telefonato il vescovo…”. Le parole gli si incastrano in gola.
Enzo tenta di seguire con gli occhi il rotolio della guarnizione circolare che rotolando, rotolando si infila infingarda sotto le ceste cariche di piombi grigi da uno e due chili, allineati come lingotti nel caveau della sede centrale di una banca svizzera, mentre una bestemmia toscana gli si soffoca proprio sul nascere nella gola arrossata dal fumo delle sue sigarette americane. Coi pensieri farciti dalla fatica che si preannuncia nel dover prima rimuovere, e poi rimettere in ordine, quei quintali di piombi per recuperare l’ultimo O–ring, unico superstite di una splendida fornitura acquistata su Internet da un sito specializzato, distoglie lo sguardo dalla cesta, cerca e trova gli occhi del piantone che, come trafitto dai suoi, incassa il collo nelle spalle per la paura di dover sostenere una delle peggiori cazziate della sua giovane carriera e diviene ancora più basso di quello che la sua uniforme fa apparire.
“E che vuole da me… il vescovo!”, grida all’inizio e poi pian piano tentandosi di contenere.
“Chiama dal comitato per i festeggiamenti per la santa patrona, vuole sapere se è tutto a posto. Dice inoltre che verrà tra un’ora, alle dieci, per la messa nella cappella”.
Enzo alza istintivamente gli occhi al cielo come per frugare nella memoria e contemporaneamente per chiedere dentro di sé perdono per la bestemmia pensata, domanda affrettato al piantone: “Ma che giorno è oggi?”.
“È il 28, Santa Fermina”.
“Io non posso venire al telefono! Digli che è tutto a posto. Come al solito. E tu, Bragonzi, recupera quella guarnizione, dai una bella ramazzata e non toccare nulla sugli scaffali”.
Riposto con cura l’erogatore che ha ancora nelle mani, Enzo corre verso la cappella che sta in fondo a sinistra nel piazzale, proprio il piano sotto la sua abitazione. In venticinque anni, è la prima volta che dimentica di preparare la cappella per la funzione in onore di Santa Fermina.
Le cose continuano inesorabilmente a scivolargli dalla mani.
Facendo mentalmente i conti sul tempo ancora a disposizione trova però che non ha nulla da preoccuparsi. In una mezz’ora scarsa può preparare l’altare, sistemare l’illuminazione, e avere ancora il tempo di cercare la divisa bianca, quella delle grandi occasioni, con i binari rossi da indossare per l’evento speciale. Certo, affidando l’incarico ai suoi subalterni avrebbe avuto ancora più tempo, tutto il tempo possibile, ma questa responsabilità, soprattutto questa, non può essere demandata, va tenuta stretta tra le mani e osservata come una cosa cara, intimamente personale. Cerca e trova attaccato al passante dei pantaloni il moschettone contenente decine di chiavi. Al primo tentativo imbrocca quella giusta che ruota senza fatica nel cilindro d’ottone lucido della serratura del massiccio portone della cappella. “Non male”, dice sorridendo tra sé, “dopo tutto il tempo che non vengo qui”.
Enzo posa la mano destra sulla maniglia e d’improvviso, come fulminato dal contatto col metallo del pomello, il ricordo del sogno fatto durante la notte viene a galla dal limbo del suo inconscio: una donna urla a gran voce e si dispera tra flutti e gorghi sotto una tempesta che gonfia di grigio il mare ed il cielo confondendone limiti e confini. Enzo la vorrebbe salvare e si sporge verso di lei, ma più si allunga e più raddoppia la distanza con la naufraga.
Ma la donna, che ora sembra una bambina, smette di urlare, congiunge le mani sul cuore e pian piano dà spazio ad un canto soave che, emergendo dalle onde e arrivando al cielo, libera un raggio di sole dalla morsa grigia delle nubi. La luce si fa largo nel cielo grigio e ovunque si poggia cheta il furore del mare.
Entrando nell’edificio sconsacrato Enzo richiude la porta alle sue spalle e pensa che non è la prima volta che fa quel sogno, ma ora non c’è tempo: è “nella casa di Santa Fermina”, o come dice spesso lui, “dalla mia vicina di casa”, ed inizia a sistemare tutto il necessario proprio come farebbe uno scenografo navigato, perché nel corso degli anni ha imparato cosa vuol trovare la gente che interviene a quella funzione.
Ricorda come negli anni passati, nei momenti difficili e di vera tensione, amasse passare qualche ora da solo nella cappella, sedendosi da un lato e svuotando la mente dai pensieri, beato nella pace derivante da quel silenzio. A volte, entrando nella cappella aveva delle domande che lo tormentavano e in quei silenzi trovava le risposte che gli servivano, risposte che il più delle volte si rivelavano corrette.
Alzando gli occhi al cielo, Capocaccia pensa a come ha potuto dimenticarsi della sua santa: “Come ho fatto a dimenticarmi di te, cara Fermina, proprio oggi che è la tua festa?”.
Sistemata la cappella a dovere e chiuso l’uscio alle spalle, Enzo sale le scale fino al primo piano di casa sua. Dalla finestra del soggiorno si gode la vista del “maschio del forte”, l’elemento centrale, quello più massiccio e bello di tutti, l’enorme orologio ormai non più funzionante con le due campane in cima al tetto: la sua imponente figura, vista con la luce del tramonto, è una di quelle immagini che Enzo non dimenticherà mai. Un segno indelebile di bellezza stagliato nel cielo del suo passato, del suo presente e del suo futuro, in quel piccolo cielo del paese delle Marche dove sarebbe andato a consumare la sua pensione in compagnia della moglie, del fidato pastore tedesco e del suo mare – che si chiamasse Tirreno, Adriatico o Egeo non rivestiva nessuna importanza – di un mare carta da lettere su cui scrivere la propria storia fino alla fine dei suoi viaggi.
Calzando il berretto bianco d’ordinanza con la visiera nera calata leggermente sugli occhi, Enzo scorge di rimando la sua immagine riflessa nello specchio della camera da letto e il pensiero di sentirsi ancora troppo giovane per andare in pensione ed essere costretto ad abbandonare il forte gli attraversa l’anima con un moto di tristezza tipico di un ragazzino che lascia il gioco con i compagni perché la madre lo avverte che è pronta la cena, e a nulla servono i “sì, arrivo!” e gli “un momento!” perché oramai sono stati spesi tutti ed è inesorabilmente giunta l’ora di rientrare…
Il trillo prepotente del telefonino interrompe la corrente dei pensieri. Meccanicamente Enzo libera la voce imprigionata in quei suoni ripetitivi. Un vortice inarrestabile gli rintrona nell’orecchio: “Capo Caccia… capo Caccia sono arrivati! Il vescovo è qui, davanti alle ancore dell’ingresso… Sono arrivati anche gli invitati!”.
Quando la voce cessa di rimbalzare nel vuoto, Capo Caccia è già nel piazzale ad accoglierli con la sua candida uniforme; nemmeno un po’ di affanno nonostante l’età e soprattutto in barba alle sigarette americane.
Il vescovo in tonaca nera con fascia, bottoni e cuffia color porpora, come nelle sue abitudini più consolidate, attende che sia Capo Caccia a salutarlo prima di rispondere e di tendergli la mano con l’anello vescovile in primo piano. Invece di baciare la preziosa pietra, Enzo tira a sé e contemporaneamente stringe con vigore la mano del monsignore nella sua, lasciando il vescovo un tantino attonito.
Fra gli altri invitati presenti nel piazzale del forte, una trentina circa, spiccano i gioielli e le stole delle dame borghesi, quasi tutte avanti nell’età, ma nessuna rassegnata a dimostrarla. Testimone il pesante trucco sul viso che, nonostante il tempo esagerato dedicatogli dalle dame, mal nasconde i tiraggi rifatti di alcune e le rughe copiose di altre che, ancora per poco, non hanno ceduto a questa moda.
Tutti si guardano intorno con aria interessata, qualcuno azzarda una domanda mentre poi si gira dall’altro lato senza ascoltare la risposta.
Un altro prete in posizione arretrata indossa oltre alla tonaca nera un copriabito merlettato, lo sguardo fisso sulle sue nere e consumate scarpe, nelle mani porta le catenelle di un turibolo che fa dondolare, nonostante sia spento, come per giustificare la sua presenza in quel contesto. Enzo, guardandolo, non può fare a meno di sorridere e pensare a quando da chierichetto di dieci anni nel paesino dove è nato lo faceva girare come un’elica mentre si trovava alle spalle del parroco che faceva la predica, provocando dense nubi d’incenso e l’ilarità dei suoi compagni. Divertito, si prendeva gioco del prete che, non capendo cosa fossero quelle risa e distraendosi, perdeva il filo del discorso e, tagliando corto, terminava anticipatamente la sua prolissa omelia, con grande soddisfazione della platea di giovani che non aspettavano altro per andare a dare calci al pallone di cuoio nel campetto spelacchiato dell’oratorio.
In questo clima Capo Caccia, prendendo in mano la situazione, per porre fine al più presto a tale rappresentazione da gita scolastica, richiama l’attenzione dicendo con tono fermo e deciso: “Signor Vescovo… andiamo”. E senza aspettare repliche o permessi si incammina in testa al drappello che attraversa il piazzale per partecipare alla funzione in onore della santa patrona nella cappella del Forte Michelangelo alias Fortezza Giulia.
Enzo conosce già tutte le domande che gli faranno perché nel corso degli anni ha trovato per ognuna di esse una risposta, perché in fondo le domande non fanno altro che ripetersi e accavallarsi senza ordine fra loro. Così ha imparato ad anticiparle in un percorso mentale che segue il filo della visita e, come una guida turistica, argomenta e cerca di dare un senso alla sua presenza affinché qualcuno, anche uno solo dei presenti, possa apprendere qualcosa.
Entrando nella cappella, una piccola sala di una quarantina di metri quadri circa, i visitatori non possono fare a meno di guardare davanti a loro e concentrare la loro attenzione sul quadro posto dietro all’altare, raffigurante la Santa: lei sospesa sulle acque del mare, vestita con una tunica azzurra, che tiene un veliero nella mano destra mentre nella sinistra un albero che sembra un cipresso verde; ha una corona sul capo ed il viso denota un’età acerba. Da un punto di vista artistico non si può certo affermare che si tratti di un capolavoro. Anche Capo caccia lo sa, ma a quel quadro è comunque affezionato: sente che gli trasmette delle emozioni poichè da forma alla sua vicina di casa, facendola uscire dall’anonimato virtuale in cui si relegano di solito i Santi. Indicando il dipinto ai presenti, levando il bianco berretto d’ordinanza in omaggio alla santa, dice alla platea, schiarendosi la voce dalla morsa del fumo: “Davanti a voi il quadro raffigurante Santa Fermina. Essa nacque verso la fine del terzo secolo dopo Cristo. Figlia del prefetto di Roma, si convertì al Cristianesimo ed appena quindicenne si dedicò alla vita religiosa e spirituale. La tradizione narra che la nave che la trasportava da Ostia a Civitavecchia venne sorpresa da una violenta tempesta, lei si mise a pregare con fervore e le onde si calmarono improvvisamente, salvando nave ed equipaggio dal naufragio. E questo è il motivo perché venne raffigurata in questo modo”.
Il Vescovo nel frattempo prende posto dietro l’altare e, tutto bardato, inizia il suo lavoro. Il suo subalterno armato di incenso si dedica a creare nell’aria figure di fumo bianco ed esotico che spuntate dal nulla e animate di vita propria, iniziano una danza ammaliante ed ipnotica esaltata dalla luce dei faretti, figure che sul più bello dei volteggi perdono poi consistenza e, rarefacendosi, sembrano disintegrarsi, per poi ricomporsi nei polmoni delle persone che le aspirano ignare.
“Ma come ci sarà finita in mare quella ragazza ripescata all’alba?”, pensa Capo Caccia, arrovellandosi la mente.
“Chi è e cosa ci faceva in balia delle onde, e in quello stato poi?”, si domanda Capo Caccia nel trovarsi di fronte a quel quadro.
“Lo chiederò a Lei, più tardi, quando saremo finalmente soli e forse, come ha fatto altre volte in questi anni, Fermina me lo farà capire”.
Durante la funzione Capo Caccia non è lì ma altrove, rincorrendo pensieri e ricucendo memorie.
Pensa a quando al termine del rito, Capo Caccia, forte della sua lunga e rodata esperienza, accompagnerà tutti giù per la scaletta, posta al lato destro dell’ingresso nella cappella, che porta negli antichi luoghi su cui il forte venne edificato. Con la torcia in mano, Capo Caccia li porterà nel sotterraneo per mostrare il luogo dove la giovane Fermina dimorò ed indicando col fascio di luce un preciso punto fra i ruderi, che è segnato con una piccola croce di legno fatta con due rametti e piantata nel terriccio del suolo, dirà che Fermina abitò proprio lì, in quella grotta, e si dedicò a diffondere la parola di Cristo fra la gente del porto.
Mentre il Vescovo si avvia alla fine della sua stanca omelia ed il prete di rinforzo esaurisce le ultime munizioni profumate, Capo Caccia passa in rassegna i suoi pensieri: “Se fossi uscito io, stanotte, avrei salvato quella ragazza e forse avrei trovato una risposta ai miei sogni ricorrenti, oppure li avrei esorcizzati una volta per tutte con una mia azione, quella che mi viene sempre negata durante i sogni e che mi lascia impotente nei confronti di quella naufraga. Dopo prendo una vedetta e vado sul posto del ritrovamento a vedere se trovo delle risposte. Io devo sapere!”.
“Andate in pace… Amen” ed il Vescovo, deponendo la tiara, scomodo ma simbolico copricapo suggello del suo potere, incrocia gli occhi di Capo Caccia che, trasalendo dai suoi pensieri, riprende in mano la situazione e mentre riorganizza le stole di visone ed i loro accompagnatori per la fine del tour nei sotterranei, già si rassegna al fatto che, terminata la visita, qualcuno con aria disinteressata chiederà perché Santa Fermina nel quadro tiene una nave in mano. Ma stavolta, al pensiero di quella domanda che per anni lo ha infastidito e stizzito, stranamente non prova alcun risentimento. Sente che essa non ha più importanza. Sa che sta rappresentando il suo ultimo spettacolo, così “prossimo alla pensione” non lo è mai stato.
4. L’esperienza sott’acqua II (Relitti) (racconto di Fabrizio Gabrielli)
… e molte altre cose non però umane, facendo attenzione e continuando a osservare – proprio così, con la testa rovesciata e le chiome fluttuanti nell’onde – potrà vedere ancora, vicino a quel monte biancheggiante; molte altre cose non umane che tuttavia si confondono con esse (per questo non meno dolorose):
- tazzine di ceramica disposte in ordine alfabetico (la prima, col nome “Anna”)
- un carrattrezzi appena reduce da una rimozione
- un cumulo di biciclette appartenute, forse, a un gruppo di ciclisti pensionati
- e scooters truccati
- e occhiali da sole (D&G)
- e piselloni di cemento del vecchio silos
- pesanti ferri da stiro abbandonati su vestiti che furono della festa
- cronometri con l’infallibile impulso dell’ora atomica di Frankfurt
- e opachi turiboli che da troppo hanno smesso di fumare
- e telefonini esauriti dalla voglia di trillare una volta ancora…
- gingilli del salotto teiere d’argento centrini&merletti perline colorate per le ultime creazioni di etnobigiotteria…
E vecchi amori, sì, vecchi amori, lì vicino, rinsecchiti come malate spugne o rosso-splendenti come complesse formazioni di corallo.
Sembrerà strano, ma Leandro parla col mare.
Ed anche con la terra bagnata dalla pioggia, con i cirri affusolati, scambia stridule grida con i gabbiani. È capitato anche che abbia lanciato occhiate d’intesa alle murene stese sul letto di morte al mercato del pesce, ma è stato tanto tempo fa.
Apparirà meno stravagante, a volte parla anche con le persone.
Jean, che per accompagnarlo ha rinunciato a passeggiare per i viali assolati di una Tolone eroticoprimaverile, lo sa bene.
Ma ora Leandro non ha voglia di parlare. Perché questo, come tutti i ritorni a Itaca che si rispettino, è uno di quei momenti da vivere senza colonna sonora. Come in quei film muti, con il solo ronzio del proiettore a farti compagnia.
I grassi turisti che affollano le banchine del porto, invadendo la città e stipando i treni in partenza per Roma, si riferiscono a quel catino d’acqua nel quale si specchia il Forte Michelangiolesco chiamandolo ocean, oceano. Di pacifico, quell’ammasso salino di idrogeno ed ossigeno, ha l’indole: ti ascolta senza mai aggredirti con domande inopportune, ti lascia sfogare, sibillino snocciola suggerimenti. A volte – è vero – si imbarca in monologhi interminabili, noiosi, senza alcuna modulazione vocalica, onde che sbattono senza soluzione di continuità sugli scogli. È il vicino di casa silenzioso col quale intessi un rapporto di non-belligeranza comunicativa. Lui c’è, a prescindere. Sic et simpliciter. Tu puoi dimenticarlo, odiarlo quando si agita rissoso e burrascoso in inverno ed amarlo quando lo rivedi, in primavera, farsi bello ed invitante. Allora gli ti fai incontro, furbescamente affabile, e lo abbracci con lo sguardo prima che con le braccia. Prima che con le parole.
Ma oggi il mare non risponde alle domande. Marcisce in un silenzio ingiustificato, (e Leandro, come un fidanzato stanco dell’ennesimo mutismo), se ne disinteressa. Prende per mano l’amico Jean e lo trascina, neanche fosse l’omonimo concittadino marinaio secoli prima alla guida della masnada degli esuli, verso un rientro trionfale nella cittadella distrutta dalle barbarie saracene.
“Ottimo Consiglio!”, avevano sentenziato i saggi di Cencelle all’idea del ritorno sulla costa, stanchi di coltivare barbabietole nelle campagne tolfetane. “Bon avisage!”, ha sciorinato Jean strizzando l’occhio quando Leandro, preannunciando l’imminente arrivo, ha suggerito alla signora Bertozzi, sua madre, di buttar giù la pasta non appena liberatasi della cornetta. Un déjà vu ancestrale, scatenato dalla ricorrenza di motti antichi e fatati, si è materializzato montando (in un crescendo rossiniano), liquefacendosi un attimo dopo, defluendo lento come lo zampillo della fontana del Vanvitelli messa a nuovo. Gli ultimi presenzialisti gabbiani, congedandosi, lo avevano abbandonato ad un amarcord sulle note di un tango di Astor Piazzolla, ed i passi si erano fatti più laconici, pensierosi. Il mare tace nell’assordante silenzio che avvolge un porto stranamente deserto. I rimorchiatori fanno bella mostra di sé, con tutti i loro addobbi, nell’attesa dei quindici minuti di gloria in cui conducono in mare la statua della santa patrona, Santa Fermina.
Mamma Bertozzi mette giù la cornetta e cala la pasta, mentre papà Bertozzi, come sempre col morale a terra, per risollevarsi lancia un disco sul piatto dello stereo, e sorride pacioso ai fruscii del trentatrè giri.
Leandro, il figliol prodigo di ritorno a casa, irrompe in compagnia di Jean. Si va a tavola.
“Civitavecchia, bella città d’incanto, che a tutti piace tanto, che a tutti piace tanto… c’è er pesce fresco e le regazze bellee… la gente assai de core, la gente assai de coreeee”, suonano le note incise sul vinile.
Papà Bertozzi, rubizzo in viso, sguazza pazzo di gioia tra un aneddoto ed un bicchiere di bianco, Jean ingurgita l’ennesimo polpo in guazzetto e ride divertito mentre la cuoca – ansia da prestazione – chiede incessantemente: “Allora, v’è piaciuto?”.
Una pila di stoviglie, pentole e padelle giace esangue nel lavabo. “Do ‘na botta ai piatti, mà?”, chiede Leandro. “No, no, ce penso io più tardi”, risponde lei. Ci tiene a specificare, “loro staranno pe arrivà”.
Loro.
Un brivido attraversa la schiena di Leandro, dal basso all’alto, si affaccia all’orecchio e sussurra: “Di’ un po’, te li ricordi chi so’, loro?”.
Se li ricorda eccome, Leandro, quegli immancabili pomeriggi. Tornava da scuola e le trovava sulla porta che si congedavano, loro, e mezz’ora dopo loro erano di nuovo là, ognuna al suo posto, salotto nazionalpopolare dove si poteva spettegolare liberamente.
Per non parlare dei baci. Ognuna pretendeva che la si baciasse e la si chiamasse zia. Tutti zii, a Civitavecchia. Di conseguenza, tutti cugini.
In quel Loro veniva compresa anche lei, che meritava honoris causa un pronome personale tutto per sé. Ne era convinto, Leandro, da sempre, da quando l’ammirava immergersi tra i flutti rilucenti, e lui, legato all’albero maestro per non impazzire, pensava: “sei bella come una sirena, Marina. Bella e pericolosa”. Ma questo accadeva seicento metri di scogliera più in là della banchina del terminal portuale, e dodici anni prima che Leandro vi mettesse nuovamente piede, baciando terra come un doge qualsiasi.
In dodici anni, e certe volte in seicento metri, può succedere di tutto. Specie quando si ha a che fare con i sentimenti.
Marina, e con lei loro, si incuneano tra i gingilli del salotto, le teiere d’argento ed i centrini in merletto. Le stringe la mano Michele, otto anni e ricci biondi, uno zainetto pieno di colori a cera ed un compito da fare: disegnare la processione a mare di Santa Fermina.
L’entusiasmo per il ritorno ed i relativi festeggiamenti si esauriscono come il finale dei fuochi di ferragosto. In un attimo la routine torna vittoriosa dalla battaglia combattuta sul campo della novità. Si contano i morti e si medicano i feriti, mentre viene servito caffè bollente.
La signora Berenice, una di loro, incursore dal cuore impavido, tenta la sortita eroica: “Ma lo sapete che m’ha detto er cugino della nora de Adelina? …”.
Nelle chiacchiere pomeridiane è sempre difficile carpire, d’istinto, chi ha detto cosa, o chi sia chi. Basterebbe usare i nomi, o una descrizione fisica. Ma sarebbe fin troppo facile.
“Dice che stamane è successa ‘na cosa strana… hanno riccorto a una, a mmare, all’alba… sarà stata la libecciata de iersera, chi lo sa…”.
“Ma quello che davero è strano è che de ‘sta tizia straniera nun se capiva gnente de quello che farfujiava… eppoi, c’aveva le gambe strane… dice attaccate!”. Le ultime sillabe, la signora Berenice le spara tutte d’un fiato, come temesse d’essere interrotta.
Cala il silenzio. Dal palazzo di fronte arriva il gracidare della tv sintonizzata sul talkshow delle due del pomeriggio. Leandro non ricorda d’averle mai viste spalancate, quelle tapparelle. Per il resto, in quel frangente, solo frinii di cicale, il mare che ha perso la sua voce, lo sfregare incessante dei colori a cera di Michele.
“Gesummaria!”, esplode la signora Bertozzi. Jean sobbalza, sorridendo si gira verso Leandro che, nel frattempo, come annusando qualcosa nell’aria, si è spostato verso la finestra, e guarda fisso verso l’orizzonte.
“Ma che davero?”. Ora si fa riflessiva. “Certo che succedeno tutte a Citavecchia… prima ‘a Madonna che piagne sangue, e poi piagne profumo, e poi piagne e basta… e mo’, ce mancava solo questa, de stranezza! E daje ai titoli sui giornali!”.
“E si fosse n’antro segno der Signore?”, si interrogano le anziane signore, chi baciandosi la collanina col crocifisso, chi portando le dita davanti alla bocca in una smorfia di religioso stupore.
Jean segue lo scambio di battute come uno spettatore alla finale del Roland Garros, muovendo lo sguardo da un interlocutore all’altro.
“E nun te ne stà lì a fa’ er pensieroso, a Leà, spiegajie a ‘sto poraccio che stamo a dì, che n’ce stà a capì niente!!”, scatta il rimprovero di mamma Bertozzi.
Leandro traduce per Jean, “si parla di miracoli o presunti tali”, biascica in francese. “In fondo credere al miracolo non costa nulla, è un palliativo che rende la vita meno noiosa. Meno noiosa del prendere il caffè dodici volte al giorno e sparlare del niente tra loro”, conclude serafico. Jean guarda le signore e con un gesto di approvazione simula un ipocrita interesse.
“Ma nun lo stamo a scommodà pe’ccosì poco, er Signore! Che ce mannasse ‘a salute, no che ce manna una chee gambe attaccate… ch’adé, ‘na sirena?…”, irrompe allora Berenice, infervorata, in colpa per aver sollevato un argomento di così profana natura e decisa a chiudere l’imbarazzante discorso.
La conversazione scivola su binari più tranquilli. Quando una galea si trova in balia delle onde di burrasca, una volta di ritorno nella baia tranquilla tutti i marinai tirano un sospiro di sollievo.
Michele continua a ricoprire d’azzurro il foglio. Ha colorato il mare, ed in un angolo del foglio ha lasciato uno spazio bianco. Ispirato dalle immagini evocate ci disegna una sirena, con i capelli biondi ed una coda blu, blu scura, lunga, maestosa. Sembra quasi di sentirlo, il profumo di quella coda squamosa, forte e pungente, lo stesso che i corpi sinuosi delle spatole poggiate sui pontili dei pescherecci attraccati al molo del Bicchiere emanano in certi poetici tramonti di fine primavera.
“Ti piace fare il bastian contrario, ma io lo so che tu ci credi, ai miracoli”, fa Jean, avvicinandosi all’ombra che fuma affacciata alla finestra, con gli occhi e le orecchie protese verso il mare.
Gira lo sguardo per un attimo verso Marina, che accarezza i riccioli di Michele e si complimenta per la bellezza dell’infantile opera d’arte. “O sbaglio?”, nuovamente guardando Leandro.
Leandro immagina per un attimo di essere un pescatore di ritorno in porto. È ancora buio pesto. La lampara illumina lunghi capelli di donna. La issa sull’imbarcazione. Ha il viso di Marina, ma parla una lingua incomprensibile; una lunga coda blu, maestosa, rilucente d’argento si dimena nella carena. Sogna di abbracciarla avvolto in un’alba disegnata con colori a cera. Con le rondini stilizzate ed il sole che sorride.
Nel cielo tuona forte un colpo di fuoco d’artificio incolore, un boato assordante seguito da puzza di polvere da sparo. I tamburi rullano e le trombe squillano. La processione sta per partire, uguale a quella di tutti gli anni, eppure – appare scontato – diversa.
Perché nell’aria elettrica c’è qualcosa di misterioso, ed il mare è troppo impegnato in un criptico silenzio.
Perché Jean, nonostante non capisca una vocale, sembra aver compreso anche il significato profondo delle consonanti più impronunciabili.
Perché dopo dodici anni Leandro è di nuovo lì, a passare in rassegna una città e tutta la sua profana devozione.
Perché Marina, oggi, è sempre bella ma decisamente meno pericolosa, e nei suoi occhi brilla una luce nuova.
Se solo il mare si decidesse ad avallare, con un consiglio, con un suggerimento…
“Cosa dovrei fare? Dimmelo!” urla alle onde, senza emettere una parola.
Poi sorride soddisfatto.
Ha ragione Jean.
Certe volte, credere ai miracoli non è poi tanto male.
5. Voci nello scirocco (racconto di Fabrizio Gabrielli)
Ora, spossato e già soffocante per quella visione d’abisso, l’uomo – quell’uomo – si dibatterà inevitabilmente (come una triglia nella nassa) per strapparsi alla morsa sotterranea dell’acqua. Ma se anche sarà riuscito a farlo, ci sarà riuscito solo per esporsi, adesso, i capelli gocciolanti, al volo, nel vento, di non meno temibili Sirene (certo!, in taluni antichi quadri così venivano raffigurate: ad ali spiegate nel vento…): monologhi interminabili, noiosi, senza alcuna modulazione – se arrivate su ‘sti cosi co’ tutti ‘sti rombi truccati ce fate scappa’… – tutti i giorni le stesse parole, le stesse parole già dette – nei salotti buoni, soprattutto – ma lo sapete che m’ha detto er cugino della nora d’Adelina?
L’importante è che ci sia uno scoop tutti i giorni.
Anche se il Diavolo è padre della menzogna.
Immetto, già per la seconda volta questa mattina, la monetina nel distributore del caffè.
Deng, cade con suono metallico. Seleziono 8, caffè macchiato zuccherato. Il macchinario dà il via all’erogazione e già penso a quanti tiri serviranno per consumare la sigaretta del dubbio.
La sigaretta del dubbio è quella che fumo ogni qualvolta mi ritrovo immerso nel dilemma “pubblicare o meno?”. Al giornale arrivano centinaia di segnalazioni ogni giorno. Cagnolini dispersi, tubature rotte, angoli di strada dissestati, perlopiù. Ma ci sono casi in cui fantasia e realtà si intersecano (incontrano) ambiguamente. Una volta era stato avvistato “un sorcio con cresta simile ad un gallo” vicino al Pirgo. Un’altra “oggetti luminosi non identificati” da una coppietta in gita di piacere alle Terme Taurine, by night.
Deontologia alla mano, cerco di scremare il più possibile.
Il direttore se ne frega, invece. L’importante è che ci sia uno scoop ogni giorno.
E quando non c’è?
“Piuttosto che niente di cui (da) scrivere, meglio inventare”.
Non importa se mancano le basi, le prove, se si sta dando corpo ad una leggenda metropolitana o ad una diceria da condominio.
“Ciò che conta è esserci, ed esserci subito”, ripete sovente.
Per questo mi chiama nel suo ufficio. Ci vado stranito, anche perché oggi è festa e vorrei starmene un po’ a sbronzarmi di civitavecchiesità, affondando nelle bancarelle dello zucchero filato.
Vorrei scrivere della processione, magari corredando l’articolo con qualche foto degli sbandieratori di Amelia. Meglio, potrei riesumare un pezzo di tre anni fa. Tanto non se ne accorgerebbe nessuno.
Invece devo andare a cercare testimonianze. “In radio è passata questa notizia, senti un po’”, e mi legge il comunicato: “È stata ripescata all’alba, al largo del porto di Civitavecchia, una giovane donna sulla cui identità sono ancora in corso di svolgimento le indagini. La ragazza, probabilmente di origine straniera, è ricoverata in stato confusionale presso il reparto di ortopedia del nosocomio cittadino. Presenta strane malformazioni agli arti inferiori. Al momento non risultano denunce di scomparsa da parte di cittadini o di turisti in transito sulle banchine internazionali del porto. Si invita dunque chiunque possa fornire informazioni utili a rivolgersi alle autorità competenti”.
“Pensavo che potresti andare a sentire Diavolo e Rampatella”, suggerisce ammiccante. “Se qualcuno c’era, chi se non loro? Quei due stanno sempre in mare. Vacci a parlare, due domandine, trafiletto on-line stasera ed in edicola domattina. Prometti sviluppi”.
Ciò che conta è esserci, ed esserci subito.
Ho intervistato i due pescatori conosciuti coi soprannomi di Diavolo e Rampatella un paio di mesi fa, nell’ambito di un dossier pseudoculturale sui personaggi mitici di una città in crisi di identità.
Tra tanti avevo scelto loro perché in un contesto in cui tutti cercano di apparire, costi quel che costi, loro scostavano (scanzavano) le luci della ribalta. A loro bastava esistere, e sopravvivere. Lavorare alacremente, senza sosta. Nessuna festa, nessuna famiglia. Il mare era la loro famiglia, pescare la loro festa.
I proverbi non sbagliano quasi mai, insindacabile punto di vista di una saggezza popolare ormai considerata, dai più, demodé.
Pensavo che il soprannome di “er Diavolo” derivasse dall’essere brutto e cattivo, proprio come un demone. “Il Diavolo non è nero come si dipinge”, si dice però, ed infatti avevo scoperto che l’uomo che avevo di fronte, estremamente taciturno, era tutt’altro che cattivo. Anche se certe volte il silenzio reiterato sa farsi inquietante.
Er Diavolo, poi, come ogni buon diavolo che si rispetti, aveva un bel da fare con le sue acque sante. La sua, di acqua santa, era quella salata del mare. Quattro mura fatte di onde spumeggianti. Amata dimora o odiosa cella, a giorni alterni.
Fedele braccio destro de er Diavolo, il suo compagno di lavoro, (La) ‘a Rampatella.
Rampatella, per chi non lo sapesse, è l’ittionimo tutto civitavecchiese per patèlla, o scodellina. Ovvero, quel mollusco che se ne sta attaccato sugli scogli senza intenzione alcuna di mollare, tirando un respiro ogni qualvolta l’acqua ricopre della sua salmastra essenza le rocce erose. Finché qualcuno non arriva a staccarle, spesso a mani nude, per farne succulento condimento da spaghetto. Al dente, preferibilmente.
“Chi si è imbarcato col diavolo, ha da passare in sua compagnia”, recita un altro detto. Rampatella s’era guadagnato l’epiteto facendosi spalla silente, più ancora del già di per sé taciturno Diavolo. Tra i due, ad averle contate, in anni ed anni di convivenza era presumibile si fossero scambiati poche centinaia di parole, ancor meno se si escludono il ciao di accoglienza quando si incontravano al molo ed il ciao di commiato al rientro in porto, dopo aver sistemato le reti e riposto le coffe.
“Se balli col diavolo, il diavolo non cambia, cambi tu”. Rampatella aveva scelto di abbandonare la sua vita ed entrare in simbiosi col più vecchio collega. Aveva detto addio alla gioia di ridere, chiacchierare, insomma, di vivere. Aveva espresso lo stesso riluttante rifiuto alla normalità, come quel vecchio Diavolo di compare.
Ogni tardo pomeriggio tornavano con il peschereccio pieno di pesce scodinzolante, suscitando invidie. “Secondo me er diavolo ce mette lo zampino”, mormoravano tra loro i colleghi. Semplicemente, er Diavolo e a’ Rampatella si rimboccavano le maniche e tiravano a bordo le reti cariche di squame. E anche quando il pescato era scarso per giorni, non gli passava neanche un istante per la mente di votarsi ad alcun Santo, tantomeno alla protettrice dei naviganti cittadini, la Fermina che oggi si festeggia. Erroneamente, mi sento di aggiungere, giacché la vera ricorrenza religiosa è stata una settimana fa, il 21 Aprile… Sono giornalista, il mio compito è puntualizzare.
Esco dalla redazione che la festa è nel culmine. Il corteo sta per passare, intravedo già i vessilli degli sbandieratori volteggiare in aria e sospirando penso a quante belle parole avrei potuto dedicargli. Mi commuovo (per ben) dodici secondi, poi mi convinco ad attraversare la folla. Dietro di me, un colorato parterre di signore evidentemente devote intona con cori da stadio “Viva Santa Fermina!”.
Quando finalmente riesco a confluire nel centro storico, realizzo che sto andando davvero a cercarli, con l’agrodolce sensazione che, comunque vada, sarà una visita infruttuosa.
Tutt’al più non li trovo, magari hanno già mollato gli ormeggi e torneranno solo sul far della sera, quando ormai il tran tran fatto di bandierine sui rimorchiatori, sfilate di giovani fanciulle recanti una palma ed una goletta e urli inneggianti alla Fermina di cui sopra sarà terminato, e nessuno presterà attenzione a chi aleggerà in angoli reconditi della città senza immergersi nella fluida corrente di persone riversatasi nel viale per sbirciare la mercanzia esposta sulle bancarelle.
Oppure li trovo, ed allora sì che potrebbe essere ancora peggio. Perché sicuramente dovrò sudare sette camice per fargli snocciolare anche solo una frase.
Ovviamente, sono sempre gli incubi peggiori a realizzarsi.
Er Diavolo mi fissa interrogativo dalla penombra del magazzino. Per terra, metri e metri di filo di nylon arrotolati. Rampatella, spiegandone un po’ per volta, fissa ligio i braccioli al palamito (anche se nessuno lo chiama mai così, a Civitavecchia; per tutti, Diavolo, Rampatella, me compreso, quella è semplicemente una coffa), Rampatella fissa gli ami alle estremità dei braccioli ed er Diavolo fissa me, che me ne sto fisso impalato sull’uscio, un fesso sotto l’infisso.
“’Sera signori. Vi ricordate, ho scritto un articolo su di voi un po’ di tempo fa…”.
Er Diavolo continua a tenermi prigioniero di una morsa invisibile, fatta di uno sguardo ostile.
Potrebbe sciogliersi in una risata, quell’occhiataccia. Ma con chi bazzica il mare è pericoloso giocare. Quella è gente che la salsedine trecentosessantacinque giorni all’anno ed il sole a picco dei mezzogiorno agostani ha temprato nel profondo. È gente che ucciderebbe per molto meno di una domanda indiscreta.
“Embé, mo’ che voi?” mi apostrofa er Diavolo. “Sei venuto a riccoje l’applauso? Nun c’avemo più niente da raccontatte”.
“Il Diavolo è padre della menzogna”, mi viene in mente scartabellando il corpus dei modi di dire che avevo utilizzato in quell’articolo. Se anche er Diavolo sapesse qualcosa, non me lo direbbe mai.
I soprannomi vengono scelti con dovizia di particolare, a quanto pare.
Vorrei tanto darmela a gambe, andarmi finalmente a dopare con dolciumi ed elio, quello usato per gonfiare i palloncini che due secondi dopo esser stati legati al polso volano via dispettosi. Andrei, se non fosse che devo avere quelle informazioni. Anche se nessuno me le saprà dare.
“L’importante è esserci, ed esserci subito.”, tuonano nella testa i refrain direttoriali. “Piuttosto che niente di cui scrivere, meglio inventare.”
“Stamattina all’alba eravate in mare?”, azzardo.
“Che te credi che stamo a pettinà ee bambole? Te credo che ce stavamo. Noi semo gente che lavora. Pure quanno pell’artri è festa”.
“È girata una notizia secondo cui stamattina sembrerebbe esser stata ritrovata una ragazza, al largo. Voi non avete notato nulla di particolare? Un po’ di movimento in più, Guardia Costiera, sommozzatori…?”.
Rampatella smette per un attimo di annodare ami ed intrecciare nylon. Mi lancia uno sguardo stupito, poi si gira verso er Diavolo, che alza il mento con un gesto inequivocabile. “Non lo stà a sentì, Rampaté… Famo sta coffa, che sinnò domani cor cazzo che uscimo a pesca”.
Rampatella tradisce un entusiasmo quasi bambinesco.
Vorrebbe esplodere in una confessione accorata, staccarsi anche solo per un attimo da quello scoglio con le fattezze del nerboruto e baffuto compagno di avventure, e parlare, parlare, parlare.
Er Diavolo mi si avvicina minaccioso.
“Ah giovinò, c’avemo da fa… scusace, eh!”, ed il Diavolo mi caccia dal suo magazzino, poi chiude la porta con un gesto di stizza.
Dietro la porta, Rampatella tiene lo sguardo basso, come un bimbo imbronciato.
Dentro di sé sente il rimpianto montare. Certo, gli sarebbe piaciuto raccontare del ritrovamento, e di quanto siano stati eccitanti i momenti in cui hanno issato a bordo il corpo, di quanto era bella quella ragazza, e bionda, e misteriosa.
Avrebbe voluto riempire di fantasticherie e mirabilia quella storia, così simile ai chiacchiericci che prendono a circolare di primo mattino, e quando il sole tramonta sono ingigantiti oltre l’inverosimile, divenuti più veri della fantasia.
Gli avrebbe fatto proprio piacere essere protagonista, una volta tanto.
“Ma che t’è passato pe la testa, Rampaté? C’è mancato niente che je spifferavi tutto. Ma che te volevi ritrovà li giornalari tra le gambe tutt’i giorni?”.
Nah, ha ragione er Diavolo. Non è roba per loro, quella.
Forse è meglio così, si convince Rampatella, meglio continuare a vivere giorni tutti uguali, il cui ritmo scandito ricorda il sopraggiungere ed il ritrarsi dell’onda sullo scoglio. Per sempre, lui e er Diavolo, fino a quando il Pescatore d’anime non deciderà che quel giorno avrà voglia di un condimento di Rampatella, per gli spaghetti. Ben al dente, preferibilmente.
Mi ritrovo per la strada, deserta. Dal portone di fronte al rimessaggio esce una coppia, preceduta da un bambino dai ricci biondi che non vede l’ora di comprare il croccante e lasciarsi legare un palloncino dei Pokemon attorno al polso. “Michele, non correre”, lo avverte la donna, forse sua mamma, “sennò niente caramelle”, aggiunge l’uomo, chissà, suo papà.
Se non pubblico il trafiletto tra un’ora, anche il direttore mi sgriderà, come fossi un bambino.
Ma cosa scrivo? Solo Diavolo e Rampatella sanno cos’è successo, loro e nessun altro.
Accendo una “sigaretta del dubbio”.
“Quanto terribile può essere la conoscenza della verità quando la verità non è di nessun aiuto”, diceva Sofocle (dicevano gli antichi). Forse ha ragione il direttore. “Meglio inventare”.
6. La sagoma del Rex che s’allontana (racconto di Serena Serrani)
Poi però, da polytropos quale era, si tolse la cera da orecchie e occhi: e subito, senza attendere un secondo, “picciola vigilia, compagni miei” disse, e ordinò di fare vela altrove. Lontano e altrove, ancora, e quanto più presto.
C’è sempre, se ci pensi, una nave enorme – fagocitauomini – su questo nostro orizzonte, ancora oggi, con bandierine policrome che sbattono al vento; c’è sempre laggiù un Rex un Posillipos un Majestic, non foss’altro per allontanarsi, lasciandosi dietro imposte chiuse che nascondono sorrisi dallo schermo – Gina Lollobrigida & Antonella Clerici – fra fornelli, cuochi, televendite & concorrenti; fino a trasformarsi in un punto da nulla nel nulla, e scomparire per sempre alla nostra vista.
Una finestra chiusa su palazzi male assemblati sigilla gli occhi del signor T. da tutto ciò che succede all’esterno di quella che lui chiama la sua oasi di pace: due camere, cucina ed un ampio bagno. Una finestra che aumenta la densità del fumo delle sigarette che la signora M. respira avida mentre briga col soffritto emulando i programmi di cucina di Antonella Clerici, adornata da bizzarri grembiulini. Una finestra che conosce bene tutte le esigenze di chi non intende lasciar penetrare il vento, ma preferisce osservarlo, sordo alle voci che il mare gli lascia in custodia.
Il signor T. si affaccia costantemente su piazza Saffi per constatare la condizione metereologica quotidiana. Oggi, durante la sua passeggiata mattutina è stato del solito umore. Ha camminato pesantemente. Si è lasciato risucchiare dal labirinto cittadino fattosi ancora più impervio dalla presenza dei venditori ambulanti, accorsi a celebrare la festa della patrona della città, intenti nel sistemarsi sulle strade principali e rendere più appetibile la solita merce, ripetuta di bancarella in bancarella. Tutte le voci intorno a lui hanno continuato a mescolarsi fino all’impazzimento come nella peggiore delle creme. Il signor T. è avanzato passo dopo passo, tra la moltitudine di bambini in estasi e genitori indaffarati con portafogli e caramelle, un serpente danzante e multicolore imprigionato nella strada lastricata di negozi usa e getta. Ad un certo punto si è soffiato il naso, imperturbabile ha salutato gli amici che lo aspettavano davanti alla “casa del gelato” e con il sigaro spento in bocca si è messo placidamente in ascolto dello sciabordio dei discorsi che hanno preso ad infrangersi inarrestabili contro una notizia: “‘sti giovini d’oggi nun se sanno più diverti’. Certo che ai giorni nostri tutte ste stravaganze mica se sentiveno!”.
“Eh! Che ce voi fa’? Le tempe cambieno!”, ha risposto il Generale, intento ad asciugarsi gli occhi con un fazzoletto di stoffa.
Il signor T. è rimasto in disparte facendo sì e no con la testa a seconda delle affermazioni. Ha continuato a guardare dall’alto degli scalini della “casa del gelato”, mentre il Generale celebrava i fasti delle loro scorribande giovanili tra vespette bianche e sguardi furtivi alle ragazze, che non ti davano retta nemmeno a pagarle.
“E già!”, lo ha interrotto Fausto, carrozziere in pensione, “Prima te facevano tirà il collo per mesi prima di farsi un giretto sulla vespa, mica come adesso!”.
Il signor T. ha annuito malinconico ricordando la sua prima uscita con Marta, che aveva accettato l’invito a salire sulla sua cinquecento solo perché pioveva e stava tardando per il pranzo domenicale. Le campane della chiesa hanno rintoccato dodici volte, è stata ora di andare, tutti hanno rivolto uno sguardo all’orologio, il signor T. ha salutato la compagnia ricordando che lui, nel pomeriggio, aveva un appuntamento con la Santa, ma questa frase non ha suscitato l’ilarità desiderata. Per la precisione nessuno ha riso. Un po’ seccato se ne è andato a ritroso facendo molta attenzione a non calpestare volti di gesso di madonne sdraiate sul cemento. Stava per attraversare la strada quando una vespetta bianca per poco non lo ha investito. Adirato, ha gridato al giovane di stare più attento ma questi si è girato mostrando un largo sorriso.
Il tragitto del ritorno non è lungo, ma tra il caldo e la gente ci ha messo più del solito ad arrivare. Il pranzo non era ancora pronto, come del resto accade da tempo immemorabile, e dopo essersi seduto si è messo a brontolare, ma ciò non ha turbato la signora M., attenta alle dosi della fonduta piemontese.
Continua a guardare i palazzi dalla sua finestra. I suoi occhi vagano posandosi di tanto in tanto sugli altarini allestiti con le icone di Santi, per la maggior parte sconosciuti, impreziositi da piccoli fiori di plastica ingrigiti dalla polvere. Mai prima d’ora ha trovato quei gingilli come un inutile spreco di spazio. Mai che passandoci davanti gli è venuto in mente di farsi il segno della croce.
“Scusa, ma quei santini lì, a che te servono?”
“Perché? Che te danno fastidio? E poi ce so sempre stati”
“Già, ce so sempre stati. E mo se potrebbero pure leva’”
“Ma che stai a dì? Se te gira male mo nun te la pia’ coi santi!” risponde la signora M. facendosi tre segni di croce.
“Dato che ce sei, fatte pure tutti quelli che nun te sei mai fatta da venti anni a sta parte, però sbrigate che c’ho fame”
“Che dici?”
“Niente, lascia perde, che è mejo”
La signora M. prende ad apparecchiare sbattendo sul tavolo posate, bicchieri, piatti e bottiglie sotto lo sguardo allibito del signor T., che con rassegnazione sistema le suppellettili con ordine secondo i posti.
“Se po’ sape’ che c’hai? È da quando sei rientrato che te girano”
“Niente. Ho saputo che è stata ritrovata na ragazzetta struppia al largo del porto”
“Ma davero? E non se sa niente? Come se chiama, de chi è parente? Né che è la fia de quelli che abbitano qui dietro?”
“Non lo so, non se sa niente. E poi chissà che avrà fatto pe finì così. Poraccia! Quando eravamo giovani noi ‘ste cose non se sentivano, ti ricordi?”
“E mi ricordo sì! E poi quando eravamo giovani noi erano altri tempi, le ragazze de casa uscivano il sabato pomeriggio a passeggio per il viale e la domenica mattina pe annà a messa in cattedrale. Che poteva succede?”
“Mica come oggi co tutte ‘ste macchine che non se cammina più! A proposito, oggi a momenti nun me mette sotto uno?”
“ce vo’ che stai attento, ma come è successo?”
“Stavo attraversando la strada e un ragazzetto co’ na vespa a momenti me pia sotto!”
“Uh! La vespa! Ma te ricordi quella bianca del generale? Te la prestava pe portamme a casa la domenica dopo la messa! Era bianca?”
“E pure quella de oggi era bianca!”
“Eh, pure tu co’ la vespa correvi! Però mo magna che s’è fatto tardi. Ma sei sicuro che de ‘sta ragazzetta non se sa proprio niente?”
“Noo”
La televisione continua il suo discorso sulla vincita del peperone verde a dispetto del pomodoro rosso, con grande delusione della signora M. che aveva tifato per lui fin dall’inizio della prova.
Il signor T. mangia, trovando che il pomodoro condito non sa più di pomodoro e che la frutta non ha quel sapore fruttoso che si ricordava. La signora M. invece deve scoprire assolutamente l’identità della ragazza misteriosa, così ricomincia con le domande, ma il signor T. continua a rispondere che non sa dirle di più e che avrebbe fatto prima a telefonare ad una delle sue informatissime amiche. Non ha fatto ancora in tempo a dirlo che la signora M. ha già alzato il ricevitore e composto il numero sotto gli occhi illuminati di quei santini che al signor T. oggi non vanno proprio giù. L’ultimo commento del signor T. riguarda la pasta al sugo di tonno: “Sta tutti i giorni a guardà programmi de cucina e poi se magna sempre pasta col tonno!”, fortuna che la signora M. è troppo indaffarata nel reperire informazioni per sentire, altrimenti partirebbe in quarta con disquisizioni spicciole sui tanti lavori domestici che non le permettono di dedicarsi alla cucina. Sono anni che questa frase rotola in tutte le discussioni fra di loro e che naturalmente si modifica solo nella conclusione: ad esempio, se il signor T. si lamenta delle camice non ancora stirate, la frase diventa: “ho talmente tanti lavori domestici da sbrigare che non ho potuto dedicarmi… a stirare”, e così via per ogni cosa. Questa semplice frase sancisce la conclusione di ogni tipo di discussione. Quello che il signor T. non capisce è come sua moglie riesca invece a trovare sempre tempo per dedicarsi alla chiacchiera telefonica con le sue amiche.
Il signor T. sistema i piatti sporchi nel lavabo e si sposta dalla cucina per assumere la stessa posizione sul divano. Si guarda le gambe rielaborando le informazioni che la signora M. si scambia attraverso il ricevitore; le sue dita veloci digitano sapientemente la rubrica delle amiche fidate mentre la sua espressione si fa più soddisfatta ad ogni alzata di cornetta.
Il signor T. ascolta gli interrogativi riguardo alla provenienza o alla parentela della ragazza, si azzardano ipotesi degne dei telefilm su Italia 1, paradossi che cozzano con i dati dell’oggettiva realtà dei fatti, impossibile da mantenere soprattutto dopo i parecchi giri di telefonate, nelle quali ognuno aggiunge qualcosa ed elimina qualcos’altro in un lavoro certosino da copista tardomedievale.
A tutti incuriosisce questa supposta identità deforme. Del resto quello che non si sa è ciò che attira maggiormente l’attenzione; lo sa bene la signora M. che, dopo essere giunta a conoscenza del fatto e dopo aver analizzato lo strano comportamento del signor T., applica un rigor di logica ineccepibile: il signor T. sa qualcosa che non vuole dirle. Continuando a chiacchierare, ma presa ormai da questo sospetto, lancia sguardi scrutatori sulla figura curva di lui che, seduto nella stessa posizione da più di mezz’ora, non smette di guardarsi le gambe.
Il signor T. è invece preso da tutt’altro genere di pensieri. Una frase rimbalza prepotentemente nella sua testa. Ha sempre attribuito al Generale una sorta di rispetto dogmatico e la sua notazione sullo scorrere del tempo si fa sentire con ostinazione anche nell’oasi di pace. Il signor T. guarda la signora M. intenta alle più ardite fantasie, con il grembiule ancora annodato alla vita e le ciabatte da camera, i capelli ormai bianchi sotto le sfumature di Jean Louis David. Non si trucca più da anni, ma questo il signor T. lo nota solo adesso. Egli si guarda le mani, più raggrinzite e ruvide del solito. Si cerca nelle foto e si vede cambiato, pur essendo rimasto lo stesso.
“Io esco”
“So già le quattro?”
“E sì, veramente so pure le quattro e un quarto!”
“Come scorre veloce il tempo!”
“Forse anche troppo! Io vado, ci vediamo dopo”
“Ciao”
Con un movimento rapido, rapidissimo, ha chiuso la porta dietro di sé e si affretta a scendere le scale del palazzo in via dei Borghesi, permettendo ai suoi battiti cardiaci di scalciare all’impazzata. Scende sotto l’arco che porta alla fontana, mentre una Madonna di ceramica osserva i suoi passi aumentare di velocità e potenza destinazione Cattedrale.
Deve sbrigarsi, altrimenti gli cambiano il vessillo e con esso la posizione nella processione, e questo non deve accadere: porta quel vessillo da quando ha iniziato a partecipare attivamente alla processione e così deve restare.
A dir la verità neanche il signor T. riesce a spiegarsi quel senso di irrequietezza che da qualche ora gli scorre lentamente nelle vene come le macchine nel viale di sabato sera, provocando noia e nervosismo, e una ottusa sensazione di fastidio.
Continua miracolosamente a camminare con passo veloce schivando bambini, genitori e sacerdoti venuti in alta uniforme per omaggiare la patrona della città durante la solenne processione attraverso le vie principali fino al porto, dove la statua della santa avrebbe fatto una breve gita in mare.
Cerca di far coincidere i suoi piedi con la velocità dei suoi pensieri, consapevole del fatto che l’incontro ufficiale è previsto per le 16 e 40 e che per prendere il posto di porta vessilli in testa al corteo deve anticipare di qualche minuto il suo arrivo, ma non sempre ci riesce e la sua andatura assume un movimento decisamente buffo.
I minuti passano sotto il sole che attraversa trionfante l’entrata del porto completamente rivestito di bandierine. Un formicaio di gente colora le scalinate della cattedrale. Il signor T. si fa largo in mezzo a quei corpi decorati a festa, imprecando contro di loro. Come tutti gli anni si infastidisce nel vedere quell’adunanza sfrontata che si crea davanti alla cattedrale solo due giorni all’anno: il 23 Dicembre per il concerto delle pastorelle, e il 28 Aprile per la processione di Santa Fermina.
Questa cosa non riesce proprio a mandarla giù, lui che ogni domenica varca quella santa porta, e lo fa da quando era ragazzo. Certo ammette che la sua frequentazione con la chiesa è cominciata per motivi non strettamente religiosi: la chiesa era l’unico posto per conoscere le ragazze, lui sua moglie l’aveva conosciuta proprio lì!
Ed ora invece le ragazze puoi trovarle ovunque, e non solo le ragazze. “Tutti delinquenti!”, ripete avvicinandosi sempre di più alla sacrestia. Riesce finalmente a sorpassare tutti quei delinquenti, vescovo e preti compresi, quando con sua sorpresa si accorge che il suo vessillo, un simil scudetto di raso lucido con disegnata l’effige della Santa con nave e ulivo nelle mani su uno sfondo di mare quieto, è stato preso da un giovanotto sui trent’anni, alla sua prima esperienza di processione.
Il signor T. non si ferma a riflettere due volte: divora il perimetro della sala fino a piantarsi davanti al ragazzo che osserva tra l’incuriosito e il perplesso l’iraconda espressione del suo dirimpettaio, che per l’occasione s’è fatto tutto rubicondo e lucido. Si trattiene cinque minuti poi sbotta: “A giovino’, guarda che te sei sbaiato, quello è il mio”, e si riprende l’oggetto del dissidio con aria soddisfatta mentre il ragazzo cerca di scusarsi e spiegargli che il vessillo gli è stato assegnato dal cerimoniere. La spiegazione del giovane irrita maggiormente il signor T. che, deciso a fare chiarezza sulla questione, cerca con lo sguardo il colpevole. Pizzicatolo dalla parte opposta delle scale, il signor T., sventola la mano con larghi gesti di indignazione indicandogli il punto preciso dove dovrà presentarsi. Il cerimoniere, che nella vita di tutti i giorni si chiama Gianni e che incarna perfettamente lo spirito rituale della situazione, raggiunti in fretta e furia i contendenti esordisce sorridendo con un: “Cosa succede?”, mentre con le mani si asciuga il sudore che dalla fronte gli cola sulle tempie.
Prontamente il signor T. ribatte: “Succede che qualcuno ha preso il mio vessillo senza chiedermi il permesso!”, e lancia uno sguardo di sfida contro lo sventurato che evita accuratamente di rispondere alle provocazioni, facendo tesoro del detto: CHI HA PIÙ PRUDENZA, LA USI!
Il cerimoniere Gianni, trovandosi sempre più in imbarazzo nel dover spiegare al signor T. la sua improvvisa declassazione, cerca di rabbonirlo con abbondanti giri di parole riguardo ai giovani che si riavvicinano alla fede, al fatto che ognuno è importante allo stesso modo, che la vita è ciclica e altre banali figure retoriche, ma il signor T. non vuole sentire ragioni, dopo tutto quello è il suo vessillo e lo porta in giro per la città durante la processione da più di trent’anni. Volente o nolente il signor T. deve cedere. Poco importano i suoi borbottii sul fatto che al giorno di oggi nessuno rispetta più le persone con l’esperienza e, rammaricato, si rassegna a prendere in mano una cordicina dorata che pende dal vessillo alla destra del giovane.
L’attesa che trasforma un comune giorno nel più intenso giorno di festa si giova immediatamente anche del ritardo accumulato durante questo episodio. L’emozione sale. Tutti dietro le quinte aspettano il momento giusto per far capolino dalla tenda ed entrare in palcoscenico, tutti tranne il signor T., con in mano quel penzolante cordino dorato, mentre lancia occhiate di disappunto all’usurpatore, ma non c’è più tempo: era ora di andare in scena.
Tra trombe e tamburi, tutti muovono i primi passi verso quel gran teatro che è diventato la città, in quel giorno sacro e profano allo stesso tempo. Ad aprire le fila è il corteo storico organizzato dalla proloco: dame baldanzose e signorotti in velluto e calzamaglie se ne vanno a spasso con tutta la dignità dei loro personaggi, traboccanti di sudore.
Nulla è lasciato al caso, la storia viene rievocata con precisione: passano in rassegna gran signore, paggi, e tutti i mestieri verosimili o potenziali, tanto per riempire il serpente travestito di vecchi panni e per lasciare a ciascuno il suo momento di gloria. Spezzato il ritorno al passato con un intermezzo di banda musicale civitavecchiese, seguono i mestieri odierni: le crocerossine, i vigili del fuoco, i carabinieri, sindaco e giunta comunale, due file lunghe un metro di sosia della Santa, chierichetti, confraternite, vessilli, preti, scout (di vari generi), monsignori e il Vescovo in magnificenza rossa.
Tutti si muovono diligenti dal retro della cattedrale, trasformandola in un enorme cilindro di un numero di alta magia. Gli occhi dei bambini si ingrandiscono davanti a quelle figure senza tempo che cozzano con la scenografia urbana di macchine e palazzi di diverse fatture, accostati come se una mano invisibile li avesse lanciati dal cielo senza un ordine ben preciso. In tutto ciò il signor T., abbattuto come non mai, muove passi incerti inciampando quasi sul suo saio bianco trascinato contro volontà da quel cordino dorato che tanto lo avvilisce.
Continua a guardare in basso sentendosi fuori luogo, come la prima volta, come in un giro di valzer, che se non guardi negli occhi il partner ti gira la testa, tra il chiasso della folla scomposta tutto intorno a lui.
Un’ora dopo, la Santa affronta vincitrice le stesse acque che la notte prima hanno abbattuto la fragile creatura ora ricoverata all’ospedale e che tutti per quel pomeriggio dimenticano inesorabilmente. Tutti, compreso il signor T., ormai rassegnato al suo ruolo di comparsa, e la signora M., ormai rientrata nei ranghi di moglie consolatrice per ricordarsi ancora di tutte le telefonate indagatorie fatte.
7. Civitavecchia (Nomen omen) (racconto di Ombretta Putzu)
O forse è solo perché un sortilegio antico, firmato col sangue e custodito in forzieri di ferro, per sempre lega la mia città al suo nome?
Passeggio per le sue vie (in fondo nessuno mi aspetta per la cena). M’aggiro in un mulinare di volti al Forte, al Cinema Bernini, in via Centocelle…, serpeggio lungo le facciate dei palazzi rovinati da anni di salsedine e tramontane… Avvertendo – oggi più che mai – che tutto questo è come prigioniero. Mentre Lui… per Lui chiamarsi Tirreno, Adriatico, Egeo o Pacifico persino è indifferente: non c’è nulla da cui la sua verità – di calma o di tempesta – non sappia strabordare.
Nemmeno un nome.
Il primo giorno in cui misi piede a Civitavecchia avevo più o meno vent’anni, una sorella maggiore a guidarmi e valige cariche di una vita passata a Roma.
I miei genitori si erano trasferiti qui qualche anno prima, stanchi della monotonia della grande città e con qualche buon sogno nel cassetto.
Non ricordo se piovesse, se fosse mattina o pomeriggio inoltrato. Ricordo solo il mare. Tanto mare, ma non invadente. Se ne stava lì quieto, sdraiato sotto il solo di Giugno a fare capolino tra i vecchi palazzi rovinati da anni di tramontane e salsedine. Un azzurro innocente e cauto a fare da cornice all’intera città.
Io e Giulia uscivamo tutte le sere. Non ci sembrava vero di poterlo fare senza destare preoccupazione a casa. Ospiti fisse del caro cinema Bernini, assaporavamo tutte quelle comodità a cui non eravamo abituate. Quando, dopo cena, scendevamo a farci una passeggiata per via Centocelle, incontravamo solo gatti e militari: calato il sole, Civitavecchia diventava una città fantasma.
Forti della nostra incoscienza ci sentivamo padrone di tutto.
Sono passati quasi trent’anni, ma tutti i pomeriggi, scendendo dal treno, mi sorprendo ancora a cercare con lo sguardo quella certezza blu che si staglia davanti alla stazione. E ogni volta sorrido vedendo quanti, inconsciamente, fanno lo stesso mio movimento. Deve essere una specie di tic, un gesto naturale e involontario che si acquisisce col tempo. Arrivi e – tac – cerchi il mare con gli occhi.
Una questione di istanti. E di conferme.
Ma oggi è diverso. Oggi gli occhi non tornano subito a fissare la strada, spediti a cercare macchine o amici, oggi, 28 Aprile, è un giorno diverso.
“Sbrigati Claudia, vieni a vedere quanta gente giù in strada, deve essere successo qualcosa di importante!”. Giulia, eccitata, mi chiamava dal balcone, sporgendosi e strizzando gli occhi cercando di capire perché tutti i civitavecchiesi fossero scesi in piazza proprio in quel giorno. “Ma la festa della liberazione non era tre giorni fa?” Era incredibile, non credevamo neppure che ci abitasse tanta gente qui…
Oggi, 28 Aprile, lo sguardo rimane sospeso e sorpreso alla vista di bancarelle e palloncini e di tutte quelle persone riversate in una sola strada. È così che tutti i pendolari come me si ricordano all’improvviso della festa della patrona, abbandonando stanchezza e pensieri per respirare un po’ di quest’aria briosa che profuma di zucchero filato e di incensi indiani.
Il giorno di Santa Fermina fa parte di quelle quattro o cinque uscite di massa a cui aderisce tutta la città. Le attività si sospendono e ci si abbandona sereni tra la folla, in una mano un pesciolino rosso appena vinto, nell’altra un sacchetto di dolciumi.
E se non tornassi subito a casa? Potrei camminare un po’ e comprarmi anche qualcosa di sfizioso, una collana di perline sfaccettate o una borsa etnica di quelle che dentro entra ogni cosa. In fondo nessuno mi aspetta per la cena, tanto vale ritardare un po’. Così pensando mi avvio verso le scalette che dalla stazione portano al viale, seguendo chi prima di me ha avuto la stessa idea.
Non ho proprio nessuno che mi aspetta.
È un pensiero che solitamente scaccio con un solo gesto, un dato di fatto, piuttosto, che nasconde rancori e malinconie. Nessun uomo, nessun bimbo. Prima non mi interessava, mi bastava la mia indipendenza: poter fare qualsiasi cosa rendendo conto solo a me stessa. La libertà l’avevo sognata così tanto che non valeva la pena perderla per nessuna cosa, e indifferente a qualsiasi affetto o situazione avevo tirato dritto per la mia strada, noncurante del tempo che passava e che mi lasciava sola.
Non che io fossi di gusti strani, né tanto meno che pretendessi troppo. Qualche uomo c’era anche stato, ma arrivava sempre un giorno in cui mi rendevo conto che l’amore doveva essere qualcos’altro. Qualcuno che fosse sempre presente ma senza il bisogno di dimostrarlo continuamente, qualcuno che basta sapere che c’è per stare bene. Qualcuno tipo il mare davanti alla stazione.
Forse l’ho guardato troppo questo mare. Forse l’ho sopravvalutato, l’ho mitizzato. L’ho fissato e ascoltato talmente tanto da lasciarmi assorbire da lui. Un po’ come adesso, che ho smesso di camminare e mi sono seduta su questo muretto, e, isolata da tutto il resto, mi ostino a pensare e guardare quest’unico panorama azzurro che ho davanti.
Cosa mi sono persa nel frattempo? In tutti questi anni non ho fatto altro che cercare questo, non mi sono neanche trasferita quando mi era stato proposto un incarico niente male su al Nord. Ma come avrei potuto? Immaginare le mie giornate senza quella presenza costante sapeva di impossibile.
Ma è stata una scelta di tanti anni fa e rimuginarci sopra adesso non ha alcun senso.
Così, come per chiudere il discorso, cambio posizione e distolgo lo sguardo e… ma cosa ci fa quest’uomo seduto accanto a me? O meglio, quando è arrivato? Non si è accorto neanche che lo sto guardando, troppo preso come è a guardare non so cosa da dietro i suoi occhiali scuri. Impercettibilmente mi allontano un po’ dal signore, infastidita da troppa vicinanza in così tanto spazio libero. Che voglia importunarmi? Eppure sembra che non mi abbia nemmeno visto. Ma cosa starà osservando così concentrato? Che stia anche lui tirando i conti dei suoi giorni vissuti? Magari sta semplicemente guardando il mare.
“Signora?”.
Rimango spiazzata nell’udire la sua voce, come se me venisse direttamente dalla mia mente, così passa ancora qualche secondo prima che io capisca e mi volti verso lo sconosciuto seduto accanto a me.
“Dice a me? Mi perdoni ma stavo pensando…”. Sorrido imbarazzata, tornando un po’ bambina. Delle volte faccio certe figure… Ci credo che la gente pensa sempre che stia un po’ fra le nuvole, ma davvero neanche me ne accorgo che…
“Signora, ma mi sente? Le ho chiesto se ha sentito del ritrovamento!”.
Oh mio Dio, sono così distratta! Quante volte mi avrà fatto la stessa domanda senza che io me ne sia accorta? Crederà che abbia qualche problema di udito o comprendonio…
“Mi perdoni di nuovo, ma non capisco a cosa si riferisce… Ritrovamento di cosa?”.
“Possibile che non abbia sentito niente? In città non si parla d’altro da questa mattina! È successo tutto giù al porto, pare che un peschereccio abbia trovato un corpo, un pesce, qualcosa di strano… Pensi che oggi al mercato dicevano addirittura fosse una sirena!”.
Una sirena? E io che credevo di essere quella stanca e troppo fantasiosa… Ma qui parliamo di follia! Proprio io dovevo incontrare il fanatico di fantascienza senza tutte le rotelle al posto loro?
“Non mi crede? Allora venga ad ascoltare…”. Così dicendo mi porge la mano e, indecisa tra il ridere o scappare, seguo il suo sguardo diretto verso il bar dell’angolo, dove un gruppetto di persone sta ascoltando concentrato quello che dicono alla radio dietro al bancone.
Va bene, va bene, non c’è niente di cui preoccuparsi… io che già credevo di essere finita nelle mani di un maniaco! Mentre camminiamo verso la piccola folla ho modo di guardarlo. Non l’ho mai visto da queste parti, probabilmente è di un’altra città, uno dei tanti che vengono a prendersi un po’ di sole e a respirare l’aria di festa…
“… d’origine straniera è ricoverata in stato confusionale presso il reparto di ortopedia del nosocomio cittadino. Presenta strane malformazioni agli arti inferiori. Al momento non risultano denunce di scomparsa da parte di cittadini o di turisti in transito presso le banchine internazionali del porto. Si invita dunque chiunque possa fornire informazioni utili a rivolgersi alle autorità competenti…”
“Mi crede ora?”, sorride davanti alla mia faccia incredula…
Ma sarà vero? Intendo… Civitavecchia la sua mentalità ‘paesanotta’ ce l’ha, con tanto di chiacchiere ingigantite e trasformate dal passaggio di bocca in bocca, un telefono senza fili che storpia ogni parola e rende tutto leggenda… Per non parlare del fascino innato del mistico-religioso che da sempre subiscono i cittadini! Non ci vorrà niente perché la notizia si trasformi nel ritrovamento di un alieno o nel risultato di un esperimento scientifico tenuto nascosto per anni… Finché alla fine non si verrà a sapere che era semplicemente un tonno e ogni chiacchiera terminerà così nella delusione comune.
È solo alla fine del pensiero che mi rendo conto di non essermelo tenuto per me, quando mi accorgo del sorriso dell’uomo che, incuriosito, mi chiede se siamo tutti simpatici e fantasiosi qui, o se è il mare e il sole che prendiamo a renderci così, spiegandomi che si tratta di un complimento e concludendo con un gesto della mano da interpretare come un invito a sedermi al tavolo libero dietro di noi.
Perché no, mi dico, spostando la sedia e accomodandomi di fronte a lui, ricambiando, serena, il sorriso.
“Vuole davvero sapere cos’è che rende questo posto diverso da altri?”.
Il suo sguardo divertito mi incita ad iniziare, così chiudo gli occhi e, prendendo fiato, inizio.
“È la prima cosa che ho visto, sa? Arrivavo con il treno per trasferirmi e – tac – l’ ho visto: il mare…”.
8. L’avvistamento dal faro (racconto di Alice Mocci)
Ora, però, vedete anche voi? in un punto non lontano all’orizzonte il mare ribolle bianco, come dentro a una Iacuzzi. (Sullo sfondo l’insistente scia di rimorchiatori addobbati per la cerimonia). Ribolle, forse, e mugghia come per un tuffo di una creatura enorme: un Gigante, un Titano, Mazinga o Mister Cena. E dalla schiuma, la vedete? affiora lenta l’immagine luminosa e luccicante di una Signora. Resta sospesa sull’onda. Vestita di una tunica azzurra, che la ricopre e nasconde fino ai piedi. Tiene un veliero, nella destra. E un albero nella sinistra, che pare un cipresso. Guarda negli occhi un bambino, lui pure luccicante, pettinato con la riga che tira i capelli da una parte. Se ora gli sta dicendo qualcosa, la Signora, non è certo nella nostra lingua. Ma lo fissa, con una luce strana nei begli occhi: come di chi ti esplora nel profondo, lanciandoti messaggi più chiari di mille sillabe e di cinque o seicento gesti. Il bambino però, ora sorride. (Beh, lo sapevamo, è magico Federico: ed è quello un chiaro segno che comprende).
Come non vedete?
Forse è perché, per vedere certe cose, un ben determinato punto d’osservazione è importante, se non addirittura essenziale (il Faro per esempio!).
Ma soprattutto bisogna sapere fare del guardare l’orizzonte una vera e propria arte (come fa una madre con il suo bimbo).
Ne ha viste tante, di cose, nella vita…
Ha visto bimbi giocare con palloni di pezza fatti in casa diventati negli anni palloni di plastica (costruiti da chissà chi). Le mamme, poi, con la felicità negli occhi, l’amore per i loro bambini stampato sul volto, la tenerezza in ogni gesto…. Ha visto giovani passeggiare con vestiti strani e sempre diversi anno dopo anno, tutti sempre con quella scintilla di luce negli occhi, che loro, il futuro, ancora lo possono sognare, che loro, la vita, ancora se la possono gustare.
Li aveva guardati sempre, quasi spiati, silenzioso dal suo mondo, per non disturbare quei giochi, le loro naturalezze, quei gesti sinceri. Sempre, aveva visto in loro, nel loro crescere, il passare degli anni, e nei fogli di giornale che di tanto in tanto trovava fuori dalla porta; aveva intravisto lo scorrere del tempo anche nei pettegolezzi della donna che gli portava le provviste, ogni due settimane. Ma più di tutto, percepiva il passare di anni, mode e stagioni osservando la sua città dal suo mondo vicino e distante. Proprio così, lui, guardiano di un faro che invece di essere sul mare se ne sta arroccato in alto e sovrasta la città, lui, l’uomo talmente affezionato a quella struttura da non riuscire a starne fuori per più di un’ora, proprio lui aveva imparato, osservano la Sua città, a capire i cambiamenti, il susseguirsi degli anni. Forte Michelangelo, porto, teatro, viali, ogni strada, ogni piazza, ogni palazzo… osservando dal suo mondo riusciva a capire se stava avvenendo una manifestazione sportiva, se c’era uno spettacolo teatrale e addirittura se al pubblico era piaciuto o meno; intuiva se qualcosa di strano urtava la quotidianità della città; era entrato, insomma, in un rapporto diretto con la città, come una mamma con il suo bambino. E gioiva e si rattristava per ciò che accadeva giù in città, comunque amava stare a guardare, comunque non si sarebbe perso per nulla al mondo la giornata di Santa Fermina.
Riusciva a cogliere da lassù quella festosità, a goderne anche lui a distanza… amava il nascere di quel giorno, l’avvicendarsi di bancarelle colorate e profumate che riempivano di gioia. Poi la sfilata, le comparse in costumi d’altre epoche destinati a evocare storie e leggende passate, la folla ammassata ai lati del viale, tutti ad aspettare, osservando il corteo sfilare sotto i loro occhi. Poi la statuetta di Santa Fermina – solo un puntino a vederla dal faro, ma così nitida nella mente del guardiano, che la ricordava ancora dal giorno della prima comunione -, la statua portata fino al mare e il rituale che avveniva ogni anno, sempre pieno di entusiasmo e di voglia di essere felici.
Anche se oggi, lo avverte ben presto, qualcosa non va, non scorre fluidamente nella solita maniera. Qualcosa turba la spensieratezza di quella festa. Inizia a scrutare e analizzare via per via, piazza per piazza, palazzo per palazzo, per cercare di capire dov’è l’intoppo. E la risposta, se così può essere chiamata una semplice, vaga, conferma, viene da sirene di ambulanze che accorrono prima verso il porto e poi dritte verso l’ospedale. Il guardiano pensa subito a qualcosa di poco conto, ma deve ricredersi notando un certo pulsare frenetico per la città. Ogni passante sembra avere qualcosa di grande da dire a chiunque incontri, ognuno ha una frenesia che scuote il corpo con gestualità fin troppo esagerate. Continua a notare e studiare il movimento giù in città: vede arrivare una macchina non identificata all’ospedale, probabilmente di un dottore arrivato così in fretta da dimenticarsi le chiavi attaccate allo sportello, ma poco dopo arriva la macchina (questa la conosce bene) del sindaco insieme a degli assessori. Ora è chiaro che qualcosa di grave è successo. Passano due mamme con i rispettivi bimbi lì sotto il faro; lui non aspetta altro, tende l’orecchio e sente che “dice ch’hanno trovato una nel mare, co le gambe tutte rovinate” e “eh sì, nun se sà manco chi è, me sà nun è de qui, va a vedè”.
Una donna, le gambe rovinate (“rovinate”… che avrà voluto dire? Maciullate? Malformate? Ferite?), all’ospedale con tanto di sindaco e assessori. Ancora i conti non tornano, anche se già è tutto se non più chiaro, almeno non alla cieca. Si rimette ad osservare Civitavecchia, e per tutto il giorno non fa che guardare, come ogni anno, questa volta senza godere, ma cercando di capirci di più. Folle di persone e giornalisti si accalcano all’ospedale, quel pulsare nervoso aumenta sempre di più per le strade, tra le vie e le bancarelle chissà quali storie scorreranno. Qualcuno ancora passa sotto il faro durante il giorno, parlano di una sirena, di una prostituta, di una fandonia…
9. Sull’evanescenza di uno scatto digitale (racconto di Maurizio Gabelli)
Allora Ok: tutto – abbiamo detto – è stato già vissuto.
Ragion per cui, il nostro giornalista potrà, senza suscitare invidie, pubblicare sulla cronaca di domani ciò che un cieco vecchio folle poeta scrisse più di tremila anni addietro.
Anche la foto che ha scattato, fumando una sigaretta, un istante prima di lasciare la Redazione, anche quella, state sicuri, è stata già avvistata in qualche cantuccio polveroso del tempo – forse anche commentata da dodici Scrittori.
Nondimeno noi l’osserveremo – perché, credetemi, faremo bene a farlo.
Una donna – l’avrete capito: è sera – siede davanti alla scrivania di un Carabiniere, in una stanza desolata e fredda.
Un bambino torna sorridente a casa, allegro del festoso abbaiare di un nuovo amico (non lo sa, ma anche lui è magico, se si chiama Merlino).
Il Vescovo appare di sbieco, lassù, da una finestra stranamente non chiusa, mentre infila la tonaca sotto una tavola lautamente imbandita – su cui fuma un’invitante zuppa d’agnello (Anche la carne ha le sue ragioni).
Una donna è ferma, pensosa, davanti alla porta di casa, immortalata nell’istante in cui si chiede se non ci sia qualche ulteriore modo di ritardare il rumore della chiave che rimbomba nel silenzio.
Poi, guardando bene nell’angolo, c’è la confusa scia di fari, vernici, colori fosforescenti lasciate dal furgone di un ambulante (che sia Ermanno?).
Tutto ok, dunque in questa foto già mille volte scattata… Solo a due cose, se ci penso, non riesco proprio a trovare soluzione: uno zainetto abbandonato fra i residui della festa, dal fondo del quale sembra colare una densa sostanza azzurra (cera, forse?). Ma, soprattutto, cos’è quella strana macchia chiara al centro? Come se – mentre già la notte era calata – ci fosse ancora una luce capace di dare sovraesposizione.
(Ma sarà certo qualche stranezza del digitale: la propensione a trasformarsi in infinite, indefinibili forme).
“Hai sentito l’ultima?” Disse il primo gradino al secondo.
“No, di cosa parli?”
“Come no, è la notizia della giornata… l’ho sentito di sfuggita questa mattina da un passante, uno talmente fuori da iniziare la giornata nel McDonalds qui a sinistra. Comunque, questo tizio bofonchiava qualcosa ad un suo amico, qualcosa di apparentemente molto strano. Parlava di una notizia letta sul rullo del Trc locale, qualcosa del genere: “…””
“Una donna cosa?”
“Sì sì, una donna con la coda di pesce, proprio così! E poi, scusa, ma tu dov’eri stamattina?”
“Io? E dove vuoi che sia stato? Ho fatto il solito, macchine che entrano, macchine che escono, gente che va e gente che viene, pezzi di discorsi, bestemmie, quelle tante. Solita amministrazione, forse più del solito perché oggi, 28 Aprile, è Santa Fermina…”
“Cazzo, hai ragione… Santa Fermina, ecco cos’è quel casino in viale Garibaldi…”
“E già, e vedrai dopo quanto ne esce fuori, con l’arrivo della processione…”
“Puttana ladra, proprio oggi? Dopo che ieri è piovuto non vedi come ero tirato a lucido? Ma ti ricordi ogni anno, dopo i festeggiamenti, quello che rimane qui da noi?”
“Eh, vallo a dire ai piani alti, il numero quattordici ancora puzza di vomito…”
“Aspetta, quel bambino che aveva mangiato cinese…?”
“Sì sì, proprio lui…”
“Hai sentito l’ultima?” Disse il secondo gradino al terzo.
“Cioè?” Rispose lui, indifferente.
“Niente, dice che ieri notte hanno ripescato una donna pesce, a largo del porto. Una cosa stranissima, con tanto di branchie e squame!”
“Che?”
“Sì sì, ne parlavo poco fa col numero uno, l’ha sentito da un tizio che usciva dal Mac”
“Eh, giusto da lì poteva usci’! Ma che razza di storia è questa?”
“Guarda io ti dico pari pari quello che mi ha detto lui, e poi io a queste cose…”
“Sciiiiii!”
“Che c’è?”
“Senti senti questi due a sede qui sul quattro, secondo me lui finge…”
“Ovvio, faranno venticinque anni in due e già le parla di matrimonio…”
“Però ci sa fare eh…”
“Aspè, ma ha detto Contini? Stai a vedere che è il figlio di quel Contini che lavora al porto? Me ne hanno raccontate certe su di lui!”
“Sai niente te?” Chiese il terzo gradino al quarto.
“Di cosa scusa?” Rispose lui, con garbo.
“Ma come, qua sotto non si parla d’altro… Ognuno che passa ne parla…”
“No, non saprei…”
“Dice che stamani hanno trovato una donna mezza pesce mezza sirena qui fuori del porto, quasi quasi un pescatore ci rimane…”
“Una donna cosa?”
“Sì sì, mezza sirena, mezza squamata…”
“Scusa, ma che storia è mai questa?”
“Io così ho sentito e così ti dico. Tra l’altro, scusa, con tutto quello che si sente oggi di che ti meravigli?”
“Su questo hai ragione però questa è proprio assurda, scusami…”
“Aspetta aspetta, la senti la banda? Ci siamo quasi, eh…”
“Scusa, non puoi capire che storia buffa mi ha raccontato il numero tre!”
“Una storia buffa in che senso?”
“Ma guarda, una strana cosa, una notizia che serpeggia tra la folla da questa mattina… Un ritrovamento insolito al largo del porto, di una ragazza/anfibio assassina che quasi quasi si porta sotto una barca intera di pescatori…”
“Ma dai?”
“Beh, questo è quello che mi ha detto il tre, poi va a capire…”
“Infatti, tra l’altro ECCOLA ECCOLA, senti come vocifera le gente! Dovrebbe stare davanti alla Nemo, un paio di minuti e la Santa passa qua davanti…”
“Senti te, ma hai capito che m’ha raccontato il quattro?” Esplose il gradino numero cinque nei confronti del sei.
“Ma chi, quello del libro dimenticato?”
“Sì sì, proprio lui! Da quando quel tizio si dimenticò quel libro su di lui, non si sopporta più. L’avrà letto cento volte in mezza mattinata, ora si sente intellettuale…”
“Ah, e come no!”
“Comunque, parlava di una notizia presa su un giornale, di una creatura mostruosa che hanno pescato ieri notte, talmente pericolosa che hanno dovuto chiamare la capitaneria…”
“Giusto questa guarda! Mai sentita cazzata più grossa…”
“Ah, ma guarda, io la penso come te… e poi GUARDA GUARDA, ecco la banda, se solo questa comitiva si togliesse dalle palle!”
Ormai il meccanismo era innescato.
Uno ad uno, tutti i quarantasette gradini si passarono la notizia dello strano ritrovamento, proprio mentre la processione di Santa Fermina volgeva al termine.
“Che dicono, che dicono?”
“Aspetta un attimo, non sento…”
“Sento i clacson suonare, hanno già fatto il giro del porto?”
“Aspettaaaa!”, inveì il quarantasettesimo gradino sul precedente, “La tipa arrampicata sul muretto qua sopra dice che i rimorchiatori e le barche so cariche di gente”
“Beati loro… anni e anni di processioni e mai una volta che abbia visto la statua, il giro nel porto… guarda te quanta gente c’è qua su!”
“Ah sì, comunque è finita, il capellone qui a lato ha detto così…”
“Infatti non sento più i clacson…”
“E anche questa è andata, bella festa però, eh?”
“Sì sì, vedrai domani quanta monnezza!”
“Che m’hai nominato, ti ricordi del quattordici lo scorso anno?”
“Terribile! Me sa che ancora un po’ puzza…”
“Che intoppata!”
“Storica!”
“Ah, a proposito di storica… senti questa! Questo qui sotto m’ha raccontato una cosa, ma lassamo perde…”
“No no, dimme”
“No no, è troppo stupida”
“E dai, ormai m’hai messo la pulce…”
“Vabbè. Non poi capi’, dicheno che…”
…
Tra le onde, sotto la finestra, le pance sventrate
dei fuochi di artificio riposavano il sonno dei vinti
Tutto, ogni giorno riinizia.